Un adulto (18 – 59 anni) è in povertà assoluta se guadagna meno di: 817,56 euro netti al mese se vive in una città del nord; 733,00 euro netti al mese se vive in provincia al nord; 554,00 euro netti al mese se vive in provincia al sud. La maggior parte di coloro che vivono in condizioni di povertà assoluta risiede nel Mezzogiorno. Sono ben il 56,1% del totale.
I Millennials sono più poveri della generazione precedente di ben il 17%, mentre in Italia a metà 2017, il 20% più ricco degli italiani deteneva oltre il 66% della ricchezza nazionale netta mentre il 50% più povero possedeva solo l’8,5%.
L’Italia ha registrato negli anni della crisi uno dei maggiori aumenti di disparità nella distribuzione del reddito tra i paesi Ocse con il risultato che i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri sempre più poveri e che la mobilità intergenerazionale è praticamente ferma.
Tuttavia allarma il fatto che i livelli di povertà e disuguaglianza elevati come gli attuali costituiscono un impedimento per lo sviluppo del capitale umano, come preoccupante è la “trasmissione” generazionale della povertà, “di padre in figlio”.
Secondo uno studio di Confindustria in Italia per un 30-50enne con padre operaio la probabilità nel 2012 di essere a sua volta operaio è pari al 61,7%. Il problema si estende anche alla classe media.
E un altro dato allarmante è costituito da fatto che la scuola non è più percepita come “ascensore sociale”. Un paradosso. In pratica oggi, che l’accesso all’istruzione è alla portata di tutti (o quasi), i bambini delle famiglie più povere hanno una maggiore probabilità di fallimento scolastico, di abbandonare precocemente la scuola e non raggiungere mai livelli minimi di apprendimento. Così, privati dell’opportunità di sviluppare i propri talenti, soffriranno probabilmente la privazione economica e sociale da adulti.
Secondo l’indagine OCSE-PISA (Programme for International Student Assessment), che accerta l’apprendimento dei minori scolarizzati, sono più di 100.000 su un totale di quasi mezzo milione (il 20%) gli alunni di 15 anni che non raggiungono i livelli minimi di competenze in matematica e lettura in Italia. Nella maggior parte dei casi provengono da contesti svantaggiati. I dati sono confermati anche dai risultati delle prove Invalsi 2017.
Non solo, l’Italia tra i paesi Ocse ha un elevato livello di abbandono scolastico prima della conclusione della scuola secondaria superiore (circa il 50% in più della media dei paesi dei giovani tra 25 e 34 anni) e ha il 27% dei giovani tra 15 e 19 anni che non studiano non lavorano e non cercano un lavoro, i cosiddetti NEET (giovani che non studiano, non lavorano e non si formano).
Su un totale di 500 mila alunni italiani di 15 anni, circa 130 mila vengono dal 25% di famiglie più povere. Tra questi 34 mila sono resilienti, ossia superano i test Pisa sia in matematica che lettura. Il dato non è confortante ed è inferiore alla media dei paesi Ocse (25%): i resilienti in Italia sono circa il 20% degli studenti svantaggiati, nel 2012 erano di più (circa il 24,7%).
Analizzando il background scolastico dei ragazzi resilienti si possono ricavare delle indicazioni utili per un punto di ripartenza. Ad esempio i minori che appartengono alle famiglie più disagiate che hanno frequentato un nido hanno il 39% di possibilità in più di raggiungere il livello minimo di competenze indicato dal Pisa. La percentuale sale al 100% se la scuola frequentata non deve fronteggiare problemi di disciplina. Contano anche la relazione tra alunni e insegnanti, l’interessamento dei genitori al percorso scolastico, le attività extrascolastiche.
Nonostante gli ultimi stanziamenti per l’Istruzione da parte del governo Renzi e l’aumento dei fondi europei, l’Italia resta in fondo all’elenco dei paesi Ue per spesa nell’educazione in percentuale al Pil. I tagli della riforma Gelmini del 2008 (otto miliardi di euro in meno in tre anni, dal 2009 al 2011) non sono ancora stati riassorbiti, anzi.
Se si osserva il dato della distribuzione della spesa pubblica per funzione, si può notare che l’Italia spende molto di più in protezione sociale che in istruzione: il 42,6% della spesa pubblica contro il 7,9%.
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