Francis Albert Sinatra nasceva il 12 dicembre di 100 anni fa a Hoboken, sobborgo di New York per immigrati e bravi lavoratori. Americano di prima generazione, figlio di un boxeur di Palagonia (in Sicilia) e di una volitiva genovese (Natalia “Dolly” Garavante), non è un figlio della miseria e del disagio da immigrato.
La prima canzone registrata è del 1939, la prima tournée nell’orchestra di Tommy Dorset del 1940, il primo ingaggio cinematografico del 1941, l’esordio con un ruolo significativo del 1944 (“Higher and Higher”) dopo un paio d’anni passati a cantare per le truppe americane impegnate in guerra. Personaggio pubblico fin da giovane (sarà amico di ben quattro presidenti, da Roosevelt a Kennedy, da Nixon a Reagan, anche se per nessuno si spenderà come per JFK), mito della prima generazione di ventenni del dopoguerra, star carismatica dallo sguardo magnetico (“Old Blue Eyes”), riesce difficile dire se Frank Sinatra sia stato più grande come cantante, come showman o come attore. Certamente il soprannome più celebre, “The Voice”, celebra la sua completezza vocale, il timbro di velluto, l’abilità nel costruire una serie impressionante di “evergreen” con oltre 600 milioni di dischi venduti e folle oceaniche per i suoi concerti.
Nella sua carriera a Hollywood si contano, per un totale di 53 film, un Golden Globe, per “Pal Joey” nel 1957, una applauditissima nomination (“L’uomo dal braccio d’oro” di Otto Preminger, 1955), un Oscar onorario (per il cortometraggio del 1948 “The House I live in”) e una trionfale statuetta nel 1953 per il suo primo, grande successo cinematografico, “Da qui all’eternità” di Fred Zinnemann. La sua colonna sonora celebrata da 2200 brani originali e 21 Grammy Awards, evoca emozioni per intere generazioni da “My Way” a “Strangers in the Night”, da “New York, New York” a “Summer Wind” ; ma il suo cinema ha gemme indimenticabili: “Hotel Mocambo” (1944), “Un giorno a New York” (1949) di Stanley Donen e Gene Kelly che gli fu maestro di ballo; “Alta società” (1956), “Qualcuno verrà” (1959), “Il diavolo alle quattro” (1961), “Il colonnello Von Ryan” (1965). Il melodramma sociale e il noir occuparono un ruolo crescente nella sua filmografia, fin dall’intenso ritratto del soldato reduce e sconfitto di “Da qui all’eternità”.
Venne poi il drogato e disperato Frankie Machine di “L’uomo dal braccio d’oro”, ma i personaggi al di qua e al di là della legge di infittirono col passare degli anni: nel 1960, l’anno di gloria del “Rat Pack” (il gruppo di amici e divi composto insieme a Dean Martin, Sammy Davis Jr, Peter Lawford e Joe Bishop) venne “Ocean’s Eleven”, allora distribuito col titolo di “Colpo grosso”.
I pettegolezzi sulle sue frequentazioni con la mafia risalivano alla fine degli anni ’40, al tempo di una tournée a Cuba, terra di conquista delle “famiglie” di Miami e Las Vegas. Vennero poi le indagini dell’FBI (mai approdate a un’incriminazione a dire il vero), le foto con il boss Gambino e l’amicizia con Joe Adonis. E, in piena ascesa del Presidente e amico JFK, ecco il profetico “Va’ e uccidi” di John Frankenheimer, uno dei più sconvolgenti thriller politici nella storia del cinema americano.
Seduttore per tutte le stagioni, da Grace Kelly ad Ava Gardner, dalla terza moglie Mia Farrow a Kate Moss, essere fragile e prepotente, piccolo-grande Napoleone della musica, Sinatra può essere ben dipinto dalle circostanze del suo funerale.
Nel pomeriggio di quel 20 maggio 1998, sei giorni dopo la morte, vennero in oltre 400 alla chiesa cattolica di Beverly Hills, da Gregory Peck a Sophia Loren. La bara fu scortata da un picchetto militare in alta uniforme, ma la lapide è piccola e quasi anonima nel cimitero di Palm Springs, lo stesso dei suoi genitori. Sinatra venne sepolto con la cravatta con i colori sociali del Genoa Football Club per sua esplicita richiesta e sulla pietra è inciso il motto da lui voluto: “Il meglio deve ancora venire”.
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