I lettori ci scrivono

Strategie didattiche e questioni di accento

Il professore era stato uno studente-lavoratore. Una volta laureato gli capitò di insegnare nei corsi serali per lavoratori  in istituti tecnici.

Gli  allievi, tutti adulti, erano impiegati, operai, casalinghe, collaboratrici familiari, militari, sindacalisti, consiglieri comunali, disoccupati. In comune avevano il desiderio  di conquistare un diploma ma anche di colmare una lacuna che li faceva sentire diversi da familiari, amici e colleghi.

L’orario era  pesante sia per coloro che frequentavano dopo una giornata di lavoro, sia per gli insegnanti che spesso svolgevano la doppia professione e che arricchivano gli aspetti teorici delle discipline  con le esperienze pratiche.

Molti allievi non resistevano alla fatica: nelle classi prime e seconde si registravano abbandoni in corso d’anno.

Il quadro-orario di insegnamento ricalcava rigidamente quello previsto per i corsi diurni  e  le lezioni si protraevano fin oltre la mezzanotte.

Molti dei resistenti,  motivati dal  desiderio del possesso del fatidico pezzo di carta da esibire erano particolarmente attenti alle lezioni di italiano in quanto consapevoli di una debolezza discriminante nell’ambito familiare o di lavoro.

Il professore  aveva capito che quello che attraeva maggiormente l’attenzione degli allievi erano gli aspetti linguistico-espressivi da poter sfoggiare quanto prima proprio nelle occasioni nelle quali si poteva palesare la loro debolezza, reale o presunta.

L’insegnante ebbe più di una soddisfazione, quando si inventò una strategia efficace. Partendo da una parola chiedeva ai maturi allievi  di ripeterla nelle varianti dialettali che conoscevano, l’accostava all’origine latina,  alla corrispondente traduzione nelle altre lingue neolatine si soffermava sulle sfumature di significato che comportavano  riflessioni di natura socio- psico-linguistica. In sostanza imparava insegnando.

Ma la soddisfazione più grande l’ebbe quando volle affrontare le regole degli accenti. Distinguendo gli acuti, da quelli gravi o circonflessi, le parole tronche da quelle piane, sdrucciole o bisdrucciole e infine dell’accento posto sui monosillabi per distinguerli da quelli che con uguale grafia, senza accento, hanno un significato diverso.

Giunto a quel punto, abbassava la voce come per fare una confidenza e richiamando così la loro attenzione diceva scandendo le parole: “Questo non lo sa neanche il vostro parente laureato: IN TAL CASO L’ACCENTO SI CHIAMA DIACRITICO O GRAMMATICALE”.

Si alzava subito una mano. “Professore, scusi può ripetere?” e  gli studenti ne prendevano nota.
Un lunedì un alunno  gli disse trionfante:
“PROFESSORE, IERI A PRANZO C’ERA MIO COGNATO LAUREATO. NON CONOSCEVA L’ACCENTO DIACRITICO O GRAMMATICALE!
Queste sì che sono soddisfazioni!
Adolfo Valguarnera
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