In questi afosi giorni di settembre si susseguono nelle patrie scuole le riunioni dei “dipartimenti disciplinari”. Riuniti per materie, i docenti prendono decisioni da sottoporre poi alla delibera del Collegio dei Docenti. Non si tratta di mera formalità (anche se spesso la spiacevole sensazione del formalismo dilaga e prende allo stomaco buona parte dei partecipanti ai lavori): le decisioni prese collegialmente, è bene ricordarlo, hanno valore di norma per la politica scolastica dell’istituto. Il che significa che esse avranno ricadute sui carichi di lavoro, sull’organizzazione e sulla didattica.
Se, insomma, il supremo organo “legislativo” di ogni istituzione scolastica è, in materia didattica e di valutazione, il Collegio dei Docenti, i “dipartimenti” sono qualcosa di simile a ciò che nel Parlamento democratico sono le Commissioni parlamentari. La parola finale, dunque, spetta sempre al Collegio. Non ad altri.
Da 20 anni però (dalla “autonomia scolastica” in poi), numerosi docenti lamentano la crescente tendenza dei Dirigenti ad imporre attraverso i dipartimenti l’espletamento di prove comuni. Pare che, spesso, ai docenti che s’oppongono in nome della libertà d’insegnamento, il Dirigente risponda che tali obiezioni sarebbero “di natura sindacale”, e che pertanto esse non rientrerebbero nelle competenze del Collegio.
Le prove comuni vengono caldamente “suggerite” dai Dirigenti — in seguito a disposizioni superiori? — con la seguente argomentazione: è necessario il più possibile “armonizzare” (leggi uniformare) didattica e valutazione affinché non ci siano “troppe” disparità tra i risultati degli alunni e troppi “salti” tra metodi e criteri di valutazione, tra un anno e l’altro, tra una sezione e l’altra, tra una classe e l’altra, tra il biennio e il triennio delle superiori. Quasi a dire che è necessario, una volta per tutte, trovare la soluzione al bimillenario problema della quadratura del cerchio (e, perché no, anche a quelli della trisezione dell’angolo e della duplicazione del cubo). Invalsi docet.
Ci si dimentica, a volte, che il pluralismo dei metodi didattici e dei criteri di valutazione, sempre esistito nella Scuola di tutti i sistemi scolastici (democratici) del globo terracqueo, benché avvertito come problema (da chi considera la Scuola come un’azienda se non come la “propria” azienda), della Scuola è invece la principale ricchezza. Infatti è proprio commisurandosi con la pluralità dei punti di vista e delle soluzioni ai problemi, che lo studente impara a formare il proprio pensiero critico rispettando quello altrui.
Si chiama democrazia. Parola che è alla base del concetto stesso di Scuola Pubblica, cioè Scuola di tutti i cittadini: senza padrini, né padroni, né guru, né vati, né profeti rivelatori del pensiero divino in materia di istruzione. La Scuola è l’istituzione istituita dalla Repubblica mediante l’articolo 33, comma 2 della Costituzione: «La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi». Non a caso, in nessuna parte della Costituzione è scritto che «La Repubblica organizza aziende scolastiche». Anche perché un’azienda generalmente svolge attività a fini di lucro, mentre la Scuola Statale (l’unica pubblica stricto sensu) è finalizzata esclusivamente a garantire il diritto dei cittadini all’istruzione.
Pertanto parlare di libertà d’insegnamento non è fare del sindacalismo: è pedagogia. Perché la libertà d’insegnamento è garanzia della libertà d’apprendimento; la quale non esiste senza il pluralismo. Che libertà d’apprendimento sarebbe quella di un Paese in cui gli alunni venissero educati direttamente dalle autorità dello Stato, con insegnanti semplici ripetitori del programma di Stato mediante libri di Stato, prove comuni (di Stato), pensiero unico di Stato, voti di Stato, promozioni (obbligatorie) di Stato? Non è forse già accaduto nella storia patria?
Mussolini nel 1935 dichiarava che la Scuola doveva essere “intonata” alle “esigenze” del Regime: «Bisogna che la scuola, non soltanto nella forma ma sopra tutto nello spirito (…) sia profondamente fascista in tutte le sue manifestazioni”.
Ovviamente ci sono nella Scuola italiana anche i fan delle prove comuni: anche perché molti docenti si ritengono migliori dei colleghi, e quindi vorrebbero guidarli attraverso il proprio superiore buon senso e la propria eminente professionalità. Delegittimati e proletarizzati, spesso i docenti non trovano di meglio che tentare di mettersi in riga a vicenda. Socrate non sarebbe probabilmente d’accordo con loro, visto che considerava sapiente solo chi non si considerasse tale.
D’altronde persino il comma 14 della draconiana Legge 107/2015 (Buona Scuola) «riconosce le diverse opzioni metodologiche anche di gruppi minoritari», e tutela pertanto chi volesse opporsi a qualsiasi imposizione.
Chi vincerà nella Scuola italica? Prevarranno i difensori della libertà d’insegnamento, o quanti credono nelle magnifiche sorti e progressive dell’uniformità aziendalista?
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