Si vuole fornire una conoscenza sulla pensione base illustrando le finalità, i meccanismi ed i vantaggi della previdenza complementare. E dal momento che le pensioni cominciano a diventare un miraggio, le nuove generazioni dovranno pensare a costruirsi una pensione personale in vista della quiescenza.
Ormai tutti sono coscienti che: (1) l’Italia adotta un sistema pensionistico fondato su un forte patto intergenerazionale per cui i lavoratori di oggi, con i loro contributi, pagano le pensioni dei loro padri e nonni; (2) i giovani avranno la pensione calcolata non più sulla base delle ultime retribuzioni (“metodo retributivo”) , ma sui contributi versati e per il totale degli anni rispetto oltre che sulla speranza media di vita e sull’andamento del Pil; (3) le nuove generazioni possono, e sempre di più dovranno, integrare la loro pensione con il “risparmio previdenziale” e garantirsi un futuro migliore con la previdenza complementare e i fondi pensione.
La domanda inquietante è: “Il TFR è meglio in azienda o alla previdenza complementare?” . I lavoratori sanno che tutta la previdenza complementare si regge sul Tfr e si chiedono con angoscia kierkegaardiana da vero salto nel buio: “A che punto è la Riforma delle Pensioni? Ci sono novità per quanto riguarda i prepensionamenti? Cosa possono sperare i Quota 96? A che età oggi è dunque possibile andare in pensione? Quali sono i requisiti richiesti?”…
I cittadini sono sempre più confusi, le diverse proposte sul tema pensioni 2014/2015 non fanno altro che alimentare i dubbi. Le ultime notizie le possiamo ricavare dalla Circolare n°4 del 28/4/2014 il Ministro della PA, Marianna Madia, ha avviato un piano straordinario di prepensionamenti nei confronti degli statali in esubero (sarebbero 20 mila secondo le prime stime). La PA (e l’Inps) dovrà perciò individuare il personale che potrà andare in pensione con i requisiti anteriori alla Riforma Fornero. Da parte sua Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro della Camera, ha dichiarato: “C’è una proposta del PD per il ritorno al sistema delle quote al fine di offrire a tutti i lavoratori un criterio di gradualità omogeneo nell’uscita dal lavoro verso la pensione. La seconda proposta è un disegno di legge per una flessibilità compresa tra i 62 ed i 70 anni, con una penalizzazione massima dell’8%”. Da parte sua, il vice presidente della Commissione Bilancio Barbara Saltamartini si è così espressa: “La situazione dei lavoratori del comparto scuola, i cosiddetti quota 96, si trascina da troppo tempo. Il Parlamento ha approvato una risoluzione, a mia firma nelle commissioni riunite bilancio e lavoro, con la quale chiediamo di sanare tale ingiustizia. Un risultato importante, ottenuto grazie all’impegno, oltre che della sottoscritta, anche del presidente della commissione bilancio Boccia e dell’onorevole Ghizzoni”.
L’azione di governo Renzi-Padoan, sugli aggiustamenti alla a riforma Fornero, si conoscerà non tanto tra un mese ma piuttosto nel 2015, con l’augurio di una migliorata situazione economica generale dell’Italia. Non è pensabile, ad esempio, che un lavoratore possa andare in pensione a 66 anni e 3 mesi con 20 anni di contributi, (come previsto dalla 214/2011), e uno che ha lavorato 41 anni – sol perché non ha raggiunto i 67 anni – non può andare in pensione o se ci va subisce penalizzazioni economiche. E poi, se da una parte è lecito indicizzare l’età di pensionamento alla speranza di vita, è semplicemente “immorale” indicizzare anche l’anzianità contributiva alla speranza di vita. E’ un errore madornale, perché così chi ha già lavorato 41 anni è costretto a rimanere al lavoro fino a 42, poi 43, poi 44… poiché questa indicizzazione porta sempre in su il tempo lavorativo.
L’ex ministro del Lavoro, (attuale presidente della commissione Lavoro del Senato) M. Sacconi precisa che la riforma pensionistica del 2011 si è rivelata troppo rigida con il grave errore è della mancata previsione di una fase transitoria tra il vecchio e il nuovo regime. Infatti, il brusco innalzamento dell’età di pensione di persone già anziane (che non ha uguali in Europa) ha determinato e determina in molti un possibile impoverimento in quanto privi sia di reddito che di pensione. E’ quindi necessaria una correzione strutturale della riforma nel nome di una sostenibilità finanziaria e sociale di lungo periodo. In questo ambito si iscrivono limitati aggiustamenti del sistema previdenziale che introducano incentivi fiscali ai versamenti volontari del datore di lavoro e del lavoratore e flessibili possibilità di pensionamento anticipato, entro definiti limiti e sulla base di moderate penalizzazioni, come nel caso della vigente ‘finestra’ 2015 per le donne. Almeno in una fase transitoria.
Intanto, per il pubblico impiego, dal 1°/01/2014 – per andare in pensione per “vecchiaia” – ci vogliono 66 anni e 3 mesi di età. Sempre a partire dal 1°/01/ 2014, per le pensioni “anticipate” della PA, occorrono 41 anni e 6 mesi di contributi per le donne e 42 anni e 6 mesi per gli uomini. Su questa diversità di trattamento l’UE ha “richiamato” il nostro Paese, ma non è stato modificato ancora nulla.
Per le donne, inoltre come ultima chance, c’è la possibilità di andare in pensione “anzitempo” (fino alla fine del 2015) a 57-58 anni d’età con almeno 20 anni di contributi … ma con l’opzione economicamente poco conveniente del solo sistema contributivo!
Recentemente, sia la Commissione Permanente della Camera dei Deputati (Lavoro pubblico e privato) che la Commissione Lavoro del Senato, hanno avanzato all’Inps la proposta di prorogare questa possibilità, prevista in via sperimentale dalla L. 243/2004 , anche dopo il 31 dicembre 2015. Si attende il parere favorevole dall’Inps.
E dulcis in fundo: dal 2016, per tutti i tipi di quiescenza, si prevede un ulteriore rialzo numerico, in peggio, sulle tabelle ufficiali.
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