“Una pentola a pressione pronta a scoppiare”. Così secondo gli esperti potrebbe evolversi la situazione sociale dei 2,2 milioni di profughi siriani (secondo dati ufficiali) che si trovano in Turchia, se non verranno compiuti rapidamente dei passi per la loro integrazione nella società. L’accordo per mettere in atto un piano di azione congiunta raggiunto il 29 novembre scorso tra Ankara e Bruxelles mira principalmente a contenere e contrastare l’esodo dei profughi. Aspiranti rifugiati che partendo dalle coste occidentali turche cercano di raggiungere l’Europa, in un tentativo disperato che nei primi dieci mesi di quest’anno ha portato oltre 3mila persone a morire per annegamento. Ma sebbene il piano congiunto preveda – tra gli altri – di “innalzare” lo standard di vita dei profughi in Turchia, la modalità di questa trasformazione mantiene tutte le incognite del caso.
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La Turchia, com’è noto, seppur firmataria della Convenzione di Ginevra del 1951, per via di una riserva geografica non riconosce lo status di rifugiato ai richiedenti non-europei. Di conseguenza, la condizione di “ospiti” con cui Ankara identifica i siriani accolti nel proprio territorio negli ultimi 4 anni, non fornisce loro uno statuto legale ben definito. Se infatti poco più di 260 mila profughi risulta stanziato nei 25 campi concentrati nella zona sudorientale del Paese, godendo di una maggiore facilità di accesso ad alcuni servizi di base offerti dallo Stato turco, la stragrande maggioranza degli altri siriani non è in grado di accedere regolarmente al mercato del lavoro, al sistema sanitario o all’istruzione. “Voglio andare in Svezia. Lì lo Stato dà la casa, dei soldi. Lì i miei figli possono andare a scuola. Qui il governo non ci garantisce il diritto di alloggio, lavoro e istruzione. Guadagno uno stipendio estremamente basso lavorando 12 ore al giorno e la maggior parte della paga serve a coprire le spese d’affitto per la casa. I miei figli lavorano quando invece dovrebbero andare a scuola. Non vedo un futuro per me e per i miei figli qui”, riassume la situazione un siriano, con una testimonianza raccolta da una recente ricerca condotta dalla sociologa Dogus Simsek della Università Koç. (Aska)
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