25 aprile. Gli Italiani festeggiano, ma spesso senza sapere cosa. L’allarme è stato lanciato pochi giorni fa da Renato Mannheimer su Il giornale, con riferimento ad un’inchiesta dell’Istituto EumetraMR di Milano, secondo la quale ben un terzo degli intervistati (tutti maggiori di 17 anni) non hanno idea di cosa la Festa della Liberazione realmente sia. Nel 2001 la percentuale d’ignoranza in proposito era limitata al 13% (almeno a Milano, unica città cui in quell’anno era stato realizzato il sondaggio).
L’abisso di analfabetismo in materia di storia recente è confermato da alcune interviste realizzate negli stessi giorni da Marion Didier per Il fatto quotidiano proprio a Milano. Su 39 intervistati, solo 7 hanno dimostrato di saperne qualcosa. Il resto è buio. E il peggio è che le persone più confuse (i giovani sotto i 30 anni) non provano nessuna vergogna della propria ignoranza; anzi, trovano la cosa molto divertente, e del tutto naturale. Sembra loro ridicolo persino porsi il problema, come è evidente dal filmato allegato all’articolo. Alla domanda “Cosa si festeggia il 25 aprile?” si sentono le risposte più spericolate: «L’indipendenza»; «La repubblica»; «La liberazione dagli Austriaci»; «Il 1918»; e via fantasticando.
Facile darne la colpa agli insegnanti (come avviene per tutti i fenomeni perversi che affliggono l’Italia in questi anni amari). Bisognerebbe però volare più alto, senza affidarsi a slogan cari a chi la Scuola l’ha smantellata (smantellando prima di tutto il senso di appartenenza civile degli Italiani).
Da anni sulla Scuola grandinano opinioni di “esperti”, circolari, valutazioni Invalsi, “Buone Scuole”, tagli finanziari. I docenti che credono ancora nel primato della conoscenza e della cultura son sempre più intimoriti e messi all’angolo dal pensiero unico: quello della “didattica per competenze”. Col bel risultato che famiglie e studenti (soprattutto quelli delle classi meno abbienti, che più avrebbero bisogno di Scuola e istruzione) svalutano sempre più il sapere: ossia quel patrimonio di conoscenze stratificato nei millenni che ha reso grande la nostra civiltà, e senza il quale nessuna competenza è possibile se non quella minimale di produttori esecutivi e di consumatori compulsivi, inconsapevoli dei propri diritti e doveri. Anzi, inconsapevoli persino della nozione e del concetto di diritto, di ius, di giustizia, di verità, di armonia, di bellezza: di ciò che è razionale in quanto utile alla massima parte degli umani, insomma.
Nessuna sorpresa, dunque, se un popolo ridotto così (soprattutto nelle sue ultime generazioni, allevate per decenni Canile 5, calcio e Smartphone) somiglia sempre più a un allevamento di polli, inconsapevoli ed ottusamente soddisfatti della propria inettitudine mentale. Nessuna meraviglia, dunque, se questi polli da allevamento insultano i docenti e li picchiano.
Chi detiene il Potere sa benissimo che i primi a squalificare gli insegnanti, la cultura e l’istituzione Scuola sono stati gli stessi detentori del Potere, riducendo sul lastrico i lavoratori della Scuola tutti e i docenti (inseriti dal Decreto Legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 nel Pubblico Impiego quando governava Giuliano Amato), con salari da fame ed una mole di scartoffie come unico scopo della loro difficilissima e nobile professione.
Pertanto non c’è nemmeno da stupirsi se l’attuale massa di neoprimitivi tecnologizzati non è consapevole di dovere le proprie residue libertà ed il riconoscimento dei propri diritti naturali a chi lottò contro il fascismo. Non c’è da sbalordirsi se molti di loro sono neonazisti e lo confessano con candore, se non con orgoglio.
Sconcertiamoci piuttosto (e svegliamoci una buona volta!) del fatto che alle élite dominanti stiano sullo stomaco proprio i diritti dei più (e che i più nemmeno son pronti a difendere, per il semplice fatto che non li conoscono!). Lo dimostra un libro uscito di recente, scritto dal direttore de Il mattino Alessandro Barbano: “Troppi diritti. L’Italia tradita dalla libertà” (Mondadori, 2018).
Con argomentazioni penetranti, l’Autore punta il dito, talora giustamente, sulla “furbizia” italiota che confonde il diritto con l’abuso e col parassitismo. Il libro (forse proprio per l’equazione diritto = eccesso) è però piaciuto molto svariati membri della classe dirigente italiana e agli intellettuali limitrofi. Alla presentazione del libro sono intervenuti, attentissimi e partecipi, Giuliano Amato, Giuliano Ferrara, Gianni Letta, Monica Maggioni, Paolo Mieli, Gianni Minoli, Romano Prodi, Francesco Gaetano Caltagirone, Francesco D’Onofrio. Clima conviviale, sorrisi e un solo grido: «Basta col “dirittismo”», ossia col reclamare “troppi” diritti. Secondo Barbano «c’è la coscienza nel nostro Paese che la corsa ai diritti sia la vera causa del declino italiano».
Che poi nessuno si curi più dei diritti fondamentali (lavoro, cultura, sanità) non sembra importare a molti: anzi, per loro, forse, è meglio così.
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