“Il Cipe (comitato interministeriale per la programmazione economica) ha approvato lo stanziamento di 2,5 miliardi per la ricerca e di un miliardo per i beni culturali italiani”. Matteo Renzi ne ha fatto un suo solito cavallo di battaglia per dire al mondo intero che lui è bravo, ma, scrive Il Fatto Quotidiano, il Piano nazionale della ricerca (Pnr) 2015-2020 approvato dal comitato, che stando a Renzi che dovrebbe rilanciare l’università italiana, riportare in patria i suoi migliori cervelli e dar vita a progetti all’avanguardia, in realtà è tutt’altro che una svolta.
Basti dire che il documento arriva con due anni di ritardo rispetto alla prima bozza. Che è stata elaborata dal governo Letta e la cui approvazione è stata rimandata di mese in mese nel 2015, poi di settimana in settimana nel 2016: il primo annuncio è arrivato a inizio marzo a Pomezia, poi il premier l’ha ripetuto il 2 aprile da Chicago e il 27 ha ufficializzato la cosa nella sua e-news anticipando la convocazione straordinaria del Cipe.
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Ma, quel che più conta, nemmeno le risorse sono una novità: i 2,5 miliardi di euro sbandierati dal premier non sono altro che i fondi abituali in dotazione anche negli scorsi anni ad atenei, enti e bandi, già compresi nel bilancio del Miur. Mentre i contributi supplementari in arrivo dall’Europa sono tutti da verificare e probabilmente sono stati sovrastimati dal governo.
Era il gennaio 2014 quando, a poche settimane dall’avvicendamento a Palazzo Chigi tra Enrico Letta e Matteo Renzi, l’ex ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carozza pubblicava una prima bozza del Piano nazionale di ricerca. Da allora sono passati quasi due anni e il Pnr “2014-2020″ è stato ribattezzato “2015-2020″. Il documento, che arriva dunque in forte ritardo, si articola in sei programmi fondamentali: internazionalizzazione, per coordinare le risorse nazionali con quelle europee, capitale umano, con attenzione a ricercatori e dottorandi (a cui sono destinate buona parte dei fondi, oltre un miliardo di euro), infrastrutture, rafforzamento dell’interazione tra pubblico e privato, investimenti specifici per il Sud, razionalizzazione delle spese.
Al di là della retorica governativa, l’Italia era e rischia di restare ancora lontana dagli standard europei per la ricerca, tra risorse certe deficitarie e fondi aggiuntivi tutti da verificare. Attualmente il nostro Paese spende l’1,31% del Pil in ricerca e innovazione, abbondantemente sotto la media Ue di 2,01%. L’obiettivo per il 2020 è quello di salire fino all’1,53%.
“A livelli invariati di Pil, ci vorrebbero circa due miliardi di euro in più all’anno rispetto a questi fondi”. Mentre il nuovo Pnr, in ritardo di due anni, pieno di incognite e lacune, rischia di essere già inadeguato nel giorno della sua approvazione.
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