Il 22 novembre di 60 anni fa, nella centralissima Dealey Plaza di Dallas negli Usa, moriva per colpi d’arma da fuoco, a soli 46 anni, il 35° presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy.
Il motivo e i mandati di quella uccisione sono ancora rimasta nelle nebbie dei dubbi più inspiegabili dell’intera storia americana.
Democratico, discendente di una ricca famiglia della borghesia americana, laurea ad Harvard e una carriera politica folgorante, John Kennedy fu assassinato mentre attraversava, sulla limousine presidenziale con la moglie Jacqueline accanto, una piazza gremita di sostenitori entusiasti.
Gli spari e la moglie che si getta sul marito per tentare di rianimarlo. Quelle immagini raccapriccianti hanno marcato la memoria di intere generazioni. Erano anche gli anni della guerra fredda e del confronto serrato con l’Unione sovietica di Krusciov.
Fu catturato un presunto cecchino, Lee Harvey Oswald, attivista castrista ed ex marine, e accusato della uccisione del presidente, secondo quanto stabilì la famosa commissione d’inchiesta (1963-194) voluta dal nuovo Presidente, Lyndon B. Johnson.
Commissione che ebbe ben pochi elementi su cui lavorare visto che anche Harvey Oswald, poco dopo aver sparato i colpi mortali fu a sua volta ucciso da un sicario prima di andare a processo.
Da quel momento fino ai giorni nostri si sono inseguite le teorie più disparate sul mandante o i mandanti dell’attentato.
In questi giorni, anche Walter Veltroni, da sempre grande ammiratore e studioso dei Kennedy, ha voluto esprimersi sull’assassinio di Jfk presentando il suo ultimo libro: “I fratelli che volevano cambiare il mondo. La storia di John e Bob Kennedy”, Feltrinelli, 2023.
Molti credono che quell’attentato avrebbe cambiato il corso della storia e continuano a chiedersi se ci sarebbe stato ugualmente il Vietnam o il Watergate. Altri, a distanza di 60 anni, si chiedono perché ricordarne ancora la presidenza.