Abbiamo sempre pensato che l’istruzione, l’educazione al bello, alla sapienza, all’arte, alla cultura sarebbero state le leve che avrebbe capovolto il mondo, rendendolo migliore. La scuola di massa e obbligatoria per tutti sarebbe stata la chiave di volta, il marchingegno che avrebbe garantito ai ragazzi non solo le pari opportunità ma anche spezzato le catene delle criminalità, del malaffare, delle delinquenze e perfino del bullismo e invece ci troviamo ancora a commentare una pubblicazione dell’Osservatorio nazionale sull’adolescenza, istituito presso il Ministero per la famiglia guidato dalla ministra Elena Bonetti, nel quale vengono riferiti dati allarmanti.
Secondo questo studio infatti nelle città e nelle loro periferie girano ragazzi senza studi e senza lavoro e che cercano nel branco della baby-gang l’orgoglio dell’appartenenza e, spesso, la voglia di riscatto e la fuga da un presente senza prospettive sconfinano nella violenza contro persone e cose.
Una istantanea della criminalità di gruppo che lega gli adolescenti e che è motivo di allarme in tante città come Bologna e Napoli, Roma e Milano, luoghi dove vengono perpetrati stupri e rapine, vandalismi e scontri violenti tra ragazzi di periferia e dei quartieri ‘alti’ delle capitali in un contesto di consumo smodato di alcolici e droghe.
A dirlo i dati: il 6,5% dei minorenni fa parte di una banda, il 16% ha commesso atti vandalici, mentre tre ragazzi su dieci hanno partecipato a una rissa.
L’Osservatorio descrive a carico di queste baby gang danneggiamenti, furti e ricettazioni, rapine ed estorsioni, risse e lesioni, diffusioni di immagini pornografiche sui social.
Alcuni di questi adolescenti hanno “deficit cognitivi non riconosciuti o riconosciuti tardivamente”, oppure “hanno problemi psichici mai riconosciuti e mai curati. Sono ragazzi con deficit educativi o gravi problemi in famiglia riconosciuti troppo tardi e non efficacemente fronteggiati”.
Quanto su questo fenomeno abbia influito la scuola e la sua organizzazione è presto detto: si tratta di ragazzi bocciati precocemente o che presto abbandonano la scuola e i libri senza poter contare su un regolare inserimento nel mondo del lavoro.
In altri termini la scuola paradossalmente li espelle, li allontana, li lascia per strada come se in un ospedale venissero dimessi i malati e lasciati alle cure medicali i sani, né riesce a prendersene cura, né a intervenire nei suoi ambiti più strettamente educativi.
È vero che l’inserimento nel mondo del lavoro spesso è una barriera invalicabile, ma è anche vero che i modelli educativi che la società propone hanno valori e sembianze del tutto opposti a quelli reali del mondo reale, fatto di sacrifici, impegno, rinunce; e questo mentre la Nazione, per oltre una settimana, su platee di palcoscenici sfavillanti di luci e lustrini (un universo a parte in ogni caso e fuori dai problemi del quotidiano), in cui i personaggi-miti dei ragazzi, quelli che rappresentano i loro riferimenti ideali e culturali si vantano di non possedere lauree, di essere stati asini a scuola, di avere litigato coi prof, di essersi annoiati, marinato la scuola ecc. ecc.
Se poi, secondo i dati del Dipartimento per la Giustizia minorile, si viene a sapere che gli ingressi di minori e giovani adulti negli Istituti penali per i minorenni in Italia nel 2020, sono stati 713, sui circa 30.000 denunciati, qualcuno dovrebbe prendere decisioni più serie, non solo su una revisione complessiva degli ordinamenti scolastici e della sua organizzazione, a partire dal reclutamento dei prof, ma anche incominciare a ragionare con onestà intellettuale sul ripristino di un minimo di giustizia sociale, che da troppo tempo ormai sembra latitare nel nostro Paese.
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