Oggi, 24 marzo 2014, ricorre il 70° anniversario della strage, da parte delle truppe di occupazione nazista, di 335 persone come rappresaglia per l’attentato partigiano di via Rasella, a Roma, il giorno prima, in cui morirono 33 soldati del reggimento Bozen.
E’ il primo anniversario senza il boia che ordinò l’eccidio, Erich Priebke, morto agli arresti domiciliari l’11 ottobre del 2013, dopo aver festeggiato il centesimo compleanno nella sua casa di Roma. Priebke si è sempre giustificato affermando che ebbe l’ordine direttamente da Hitler e che l’attentato di via Rasella fosse stato organizzato con lo scopo preciso di provocare la rappresaglia.
L’esplosione avvenne, come ricorda La Stampa, nel primo pomeriggio e via Rasella si trasformò immediatamente in un selva di mani alzate e di uomini e donne che gridano. Il comandante della Wermacht, Kurt Maeltzer, arrivò ubriaco, minacciando di fare saltare in aria tutta la via.
Hitler, saputa la notizia, “sembrava impazzito: per ogni tedesco morto voleva uccidere 30, 50 italiani”.
Nel corso nella giornata gli ufficiali tedeschi decidono che una rappresaglia di quella portata avrebbe finito per nuocere al Reich. La giusta misura, una proporzione aurea dell’orrore viene stabilita infine dal Feldmaresciallo Albert Kesselring: dieci italiani per ogni tedesco. A stilare l’elenco delle vittime è il tenente colonnello Herbert Kappler: detenuti comuni, condannati a morte, ebrei, civili rastrellati con l’aiuto della polizia fascista. E’ il questore Pietro Caruso ad aggiungere altre 50 vittime. Nella notte muore un altro soldato della Bozen, la lista delle vittime si allunga, ne servono altre dieci.
La rappresaglia, ricorda ancora La Stampa, ha inizio nel primo pomeriggio, quando i detenuti del Regina Coeli e di via Tasso vengono caricati sui camion e portati nel luogo scelto per l’eccidio, le antiche cave di tufo sulla via Ardeatina, poco lontano dall’Appia Antica, dove già si trovavano i resti di decine dei martiri cristiani. Nella sua deposizione Kappler racconterà di aver calcolato i tempi per uccidere in base al numero di suoi uomini, nelle armi e delle munizioni.
Quando li fanno scendere dai camion, Priebke e il capitano SS Karl Hass si rendono conto che la fretta e l’incuria hanno allungato la lista dei prigionieri: 335 invece di 330. Decidono di ucciderli ugualmente, liberarli avrebbe compromesso la segretezza della strage.
Li fanno scendere nelle gallerie male illuminate, a gruppi di cinque. Li fanno inginocchiare e sparano. Mentre le prime vittime cadono a terra, quelle successive sono costrette a mettersi in ginocchio sui loro corpi per andare incontro allo stesso destino. E così fino alla fine, quando i cadaveri ammassati sono così tanti che per sparare i soldati tedeschi devono calpestarli. Per nascondere alla cronaca e alla storia l’eccidio, Priebke e Kappler fanno saltare l’ingresso della cava. E se ne vanno. La portata della tragedia si verrà a conoscere solo nel giugno nel 1944.
“Tutta la storia delle Fosse Ardeatine è stata così tormentata che non è mai finita – ha ricordato pochi giorni fa il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni – Esistono ancora dei punti da chiarire “
La partigiana Carla Capponi – nel 1996, in una puntata di Mixer – prova a dare risposta ad uno dei più atroci interrogativi: lo avrebbero fatto lo stesso, se avessero saputo della rappresaglia? “La Resistenza – dice – non può prescindere dal resistere; il nemico va combattuto”.
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