Cari genitori, insegnanti, studenti e studentesse,
è di stamattina la notizia che le scuole superiori riapriranno i battenti l’11 gennaio, non più il 7.
Attenderemo quattro giorni per vedere ribadito un concetto ormai noto: ragazzi e ragazze delle superiori veicolano i contagi, benché nell’A.S. 20-21 abbiano avuto l’onore di presenziare a scuola poco più di un mese, rigorosamente mascherati e sempre seduti al banco. Il contagio è avvenuto sui marciapiedi fuori dalla scuola e sui mezzi pubblici. Ma è più facile gettare il bambino insieme all’acqua sporca.
Risulta scontato chiedere sacrifici a una generazione che non produce, non protesta, per lo più ancora non vota. Del resto, per loro c’è la soluzione, si chiama DAD, Didattica a distanza.
Dopo l’estate 2020 trascorsa a parlare di banchi a rotelle, distanza tra le “rime buccali”, mascherine, disinfettanti, nell’autunno 2020 ragazzi e ragazze delle superiori sono tornati a scuola sul divano di casa.
Invece che concentrarsi sul distanziamento, non sarebbe stato più utile parlare finalmente di didattica? Ci si è mai chiesti che prezzo stanno pagando i ragazzi e le ragazze che nel nome della bontà, tutta da dimostrare, della DAD, per sei giorni su sette trascorrono dalle quattro alle otto ore quotidiane davanti al pc, senza contare le ore dedicate ai compiti, da svolgersi anch’essi al pc?
Non entriamo nel merito della posizione di chi ritiene non ci sia differenza tra la didattica a distanza e quella in presenza. Se i nostri ragazzi e ragazze sono dei contenitori da riempire, si può agilmente riversare tutto il sapere dallo schermo di un computer, senza cambiare di una virgola l’approccio, il metro di valutazione, senza rimodularsi ricordando che al di là dello schermo c’è un essere umano.
Basterebbe sfogliare un qualunque manuale di pedagogia della scuola per scoprire che la relazione è strumento privilegiato del fare educazione, che il cuore dell’educazione stessa è l’esperienza umana che accade ogni giorno tra educatore e educando. Una relazione asimmetrica, in virtù della maturità e responsabilità dell’educatore, che non smette per questo di essere reciproca, perché se l’azione educativa non modifica anche chi la esercita, nessuna relazione è possibile.
Vorremmo chiedere a chi ci governa se, dopo aver tanto parlato di distanza, non sia arrivata l’ora di parlare di didattica. Perché se “a distanza” dev’essere, la “comunità educante” – i professori, ma anche i dirigenti scolastici – che si è dovuta reinventare un mestiere sappia anche come portarlo avanti contando su strumenti diversi dalla buona o cattiva volontà, dall’improvvisazione… O dalla soluzione “50/50”, metà classe in presenza, metà a distanza, ovvero la cosiddetta DDI, Didattica Digitale Integrata, che è la versione peggiore della DAD.
Un primo rimedio ci sarebbe, si chiama “formazione” e deve cercare di rispondere a questa domanda: perché, per chi, che cosa e come bisogna insegnare in questo momento storico così delicato?
Come può la scuola riempire in modo fruttuoso questo tempo sospeso, senza accettare l’equivalenza che tenere gli studenti connessi “come fossero a scuola” voglia dire davvero fare scuola?
Quale misure concrete si possono attuare perché il rimedio non sia peggiore del male?
In assenza di risposte vorremmo passare ai fatti. Chiediamo agli studenti, alle studentesse, ai genitori e agli insegnanti che condividono queste riflessioni di appoggiare una protesta civile e anticontagio: l’8 gennaio, invece di “tornare a scuola” sul divano, i nostri ragazzi e ragazze proclamino lo “Sciopero della DAD”, giustificando in questi termini la loro assenza.
L’8 gennaio 2021 alle 8:00 del mattino non ci si connette, perché i nostri ragazzi e ragazze delle superiori per lo più ancora non votano, non producono, non protestano, e forse proprio per questo meritano più di sempre di essere guardati e ascoltati.
Un gruppo di genitori e insegnanti di Milano
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