‘Ogni genio che nasce donna è perduto per l’umanità’ scriveva Stendhal i primi dell’800. Oggi, a duecento anni di distanza, purtroppo le donne sono ancora penalizzate”. A sostenerlo è il professore Andrea Cammelli, direttore e fondatore di AlmaLaurea, nell’anticipare, in occasione dell’8 marzo la documentazione sulle laureate alla prova del lavoro contenuta nel XVI Rapporto AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati italiani che sarà presentato lunedì 10 marzo all’Università di Bologna al Convegno “Imprenditorialità e innovazione: il ruolo dei laureati”. I dati forniti confermano un vecchio “copione”: le significative e persistenti disuguaglianze di genere.
Tra i laureati magistrali biennali (3+2), già ad un anno dalla laurea le differenze fra uomini e donne, in termini occupazionali, risultano significative (7 punti percentuali: lavorano 52 donne e 59 uomini su cento). “Le donne – spiega AlmaLaurea – risultano meno favorite non solo perché presentano un tasso di occupazione decisamente più basso, ma anche perché si dichiarano più frequentemente alla ricerca di un lavoro: 35% contro il 27% rilevato per gli uomini. A cinque anni dal conseguimento del titolo le differenze di genere si confermano significative e pari a 7,5 punti percentuali: lavorano 79 donne su cento e 86,5 uomini su cento”.
E la forbice si allarga ulteriormente in presenza di figli. A un anno dalla laurea raggiunge i 17 punti tra quanti hanno figli (il tasso di occupazione è pari al 44% tra gli uomini, contro il 27% delle laureate), mentre scende fino a 10 punti, sempre a favore degli uomini, tra quanti non hanno prole (tasso di occupazione pari al 49% contro il 39%, rispettivamente). A cinque anni dalla laurea il differenziale, lungi dal diminuire, aumenta toccando i 25,5 punti percentuali tra quanti hanno figli (il tasso di occupazione è pari all’89% tra gli uomini, contro il 63,5% delle laureate), mentre scende fino a 7,5 punti, sempre a favore degli uomini, tra quanti non hanno prole (tasso di occupazione pari al 83,5% contro il 76%, rispettivamente).
Anche nel confronto tra laureate, chi ha figli risulta penalizzata: a un anno dal titolo lavora il 39% delle laureate senza prole e il 27% di quelle con figli (differenziale di oltre 12 punti percentuali). A cinque anni dal titolo il differenziale si mantiene sullo stesso livello (oltre 12 punti percentuali): lavora il 76% delle laureate senza prole e il 63% di quelle con figli.
“Forti sono le responsabilità in termini di politiche a sostegno della famiglia e della madre-lavoratrice, soprattutto perché dai dati appena citati si evidenzia con forza lo scarto occupazionale esistente tra le laureate, a seconda della presenza o meno di figli”, commenta Andrea Cammelli.
Considerando la tipologia dell’attività lavorativa le differenze si confermano elevate. Ad un anno dalla laurea gli uomini possono contare più delle colleghe su un lavoro stabile (le quote sono 39 e 31%). Il lavoro non standard, ovvero il contratto a tempo determinato, è leggermente più diffuso tra le donne, coinvolgendo 25 occupate su cento (rispetto al 22% dei colleghi). A cinque anni dalla laurea il lavoro stabile diventa una prerogativa tutta maschile: può contare su un posto sicuro, infatti, il 79% degli occupati e il 67% delle occupate.
Le differenza di genere si confermano anche dal punto di vista retributivo Ad un anno dal conseguimento del titolo gli uomini guadagnano il 14% in più delle loro colleghe (1.254 euro contro i 1.098 euro delle donne). Tra uno e cinque anni dal conseguimento del titolo, infatti, le differenze di genere, lungi dal ridursi, aumentano ulteriormente, raggiungendo il 22% (1.626 contro 1.333 euro delle colleghe).
Un settore lavorativo dove la presenza di donne è invece massiccia è quello della scuola. A ricordarlo, sempre in occasione dell’8 marzo, è l’Anief. Che realizzando uno studio sulla condizione femminile nell’istruzione pubblica ha ricordato che nella scuola solo 19% di insegnanti sono maschi. Non solo: la percentuale di donne dietro alla cattedra è destinata a crescere. Basta dire che tra gli iscritti ai corsi di formazione per abilitarsi nella scuola primaria e dell’infanzia ci sono corsi dove vi è un solo componente di sesso maschile ogni trenta donne. Continuando nella tradizione: oggi alla materna il 99,6% è rappresentato da maestre.
La maggiore predisposizione delle donne verso la scuola, ricorda il sindacato autonomo, sembrerebbe legata anche a fattori biologici. Che si manifestano già in tenera età. Con i risultati migliori, già nella scuola primaria, molto spesso ad appannaggio del sesso femminile. Se guardiamo ai dati sulla dispersione scolastica, il tema non cambia: nel 2012 l’Italia era ancora ferma al 17,6%, ma tra i maschi sale al 20,5%, mentre tra le femmine scende al 14,5% (non molto distante dalla media europea del 12,8%).
Il rapporto più felice tra donna e istruzione si evince, inoltre, dalle ultime risultanze Ocse: a quindici anni le femmine hanno competenze in lettura significativamente più alte dei maschi, mentre questi ottengono risultati migliori in matematica, ma di misura statisticamente non significativa. Le ragazze coltivano, inoltre, aspettative di lavoro più elevate dei maschi e si iscrivono ai corsi di istruzione universitaria più dei ragazzi.
E nell’istruzione terziaria le donne primeggiano sul totale della popolazione, con il 16% contro il 13% degli uomini, in sintonia con la media dei paesi Ocse (donne 33%, uomini 29%). Sempre dall’università giungono numeri eloquenti: le donne iscritte ad una Facoltà di studi italiana sono di più (56%), hanno ottenuto alla maturità un giudizio medio alto (87/100) e si laureano almeno un anno prima degli uomini.
Per molte donne la scuola, dove non vi sono differenze di stipendio in base al genere, ha sempre rappresentato un’isola felice. Negli ultimi anni le cose però si stanno complicando. Il loro reclutamento è diventato sempre più lento: basta dire che tra il 2009 e il 2011 il numero degli insegnanti si è ridotto del 9% passando, da 843mila a 766mila unità. Un decremento che ha riguardato maggiormente i docenti precari, tagliati del 25%, mentre quelli di ruolo sono scesi del 6%. Così l’attesa prima dell’assunzione a tempo indeterminato si è sempre più allungata. Tanto è vero che oggi le nostre docenti con meno di 30 anni sono appena lo 0,5%, mentre inGermania la presenza di insegnanti under 30 si colloca al 3,6%, inAustria e Islanda al 6%, in Spagna al 6,8.
L’Anief ha ricordato anche l’effetto dirompente che la riforma Fornero ha avuto sulle insegnanti: dal 1° gennaio del 2012 l’età minima per accedere all’assegno di quiescenza è passato da 60 a 62 anni, da quest’anno servono 63 anni e 9 mesi. Mentre per quelle che non posseggono il requisito dell’età anagrafica, occorre un’anzianità contributiva di 41 anni e 6 mesi entro il 31 dicembre 2014. È quasi superfluo dire che si tratta di un’imposizione che fa arrivare le donne italiane alla pensione scontente e affaticate: sarebbe servita un’introduzione della legge più graduale e dando la possibilità alle docenti con oltre 20-25 di insegnamento alle spalle di diventare tutor dei nuovi colleghi, alleggerendole in questo modo dal peso dell’insegnamento tradizionale e fornendo un prezioso aiuto alle nuovi generazioni d’insegnanti. Sempre più rosa.