Premetto che per ragioni di gusto e di stile non mi pare elegante che un ministro attacchi il suo successore.
Anche per questo non registrano fedelmente le mie ultime considerazioni le cose pubblicate nei giorni scorsi sulla stampa in tema scolastico.
Leggo da anni, e con interesse, la “Tecnica della Scuola” e qualche giorno fa mi sono imbattuto in un vostro articolo intitolato “Gli ex ministri del centro sinistra all’unisono: Gelmini, così non va”. In esso vengono riportate mie dichiarazioni riprese da alcune interviste effettivamente rilasciate ad altri giornali i quali però non hanno rappresentato con fedele precisione il mio pensiero. Per rispetto nei confronti dei lettori, grazie alla serietà della vostra rivista, vorrei pertanto dire con le mie parole, e non attraverso le interpretazioni di altri, quello che penso.
Primo: nella sostanza, non sono stato io ad abrogare il voto in condotta. Esso infatti non era più in uso nella scuola già da un paio di decenni prima del mio arrivo al Ministero. I fatti lo avevano cancellato. Io ho solo formalizzato una realtà esistente, anche nell’intento di cambiare la natura del sistema sanzionatorio.
Secondo: va precisato che, in particolare, il bullismo in quel momento storico non aveva il rilievo né la natura che in seguito ha manifestato e che ora ha. E’un fenomeno totalmente sganciato dalle misure sulla condotta.
Terzo: in questi anni il nuovo sistema sanzionatorio non è stato assimilato, fatto proprio dalla scuola. Si sono inoltre verificati in essa troppi fenomeni di trasgressione anche gravi, che per fortuna non riguardano la maggioranza degli studenti ma che non vanno certo sottovalutati. Fenomeni minori, ma diffusi, e manifestazioni acute, rilevanti. Non credo però che essi possano essere imputati a quei provvedimenti: mi pare invece che siano piuttosto la rappresentazione italiana di fenomeni anche remoti che importano da noi prassi infinitamente più gravi presenti nella scuola e nella società di tutti i Paesi occidentali.
Quarto: anche per questi motivi sono personalmente convinto che sia necessario, ora, un messaggio di rigore e di serietà, che trovo opportuno e tempestivo, e sul quale concordo con l’ispirazione del ministro Gelmini. La questione va affrontata nelle scuole, anche perché l’opinione pubblica lo richiede. E’giusto che, per esempio, a comportamenti penalmente perseguibili, nei casi più gravi, si faccia fronte con il codice penale. Ma anche le sanzioni scolastiche devono essere applicate: in questo però è essenziale e decisivo che spetti all’autonomia di dirigenti e docenti la valutazione e l’applicazione degli interventi sanzionatori. Già da tempo le scuole migliori lo fanno.
Quinto: è altresì necessario che all’intervento sanzionatorio debba integrarsi un profondo cambiamento della scuola capace di puntare ad un coinvolgimento degli alunni. Questo punto non esclude quanto già detto ma è essenziale. Se bambini e ragazzi non sentono la scuola come cosa propria, non sono partecipi dei valori sia culturali che educativi che la informano, i provvedimenti sanzionatori diventano grida manzoniane del tutto inefficaci, impotenti come del resto già succede.
Sesto: istruzione ed educazione sono infatti due facce della stessa medaglia. Si educa con le regole, con disciplina ma anche e soprattutto con l’esempio, con i comportamenti degli educatori nella scuola e ancor più attraverso lo studio e l’assimilazione delle diverse materie scolastiche. Leggere Omero, fare un esperimento di fisica, studiare il Risorgimento, suonare insieme sono attività che,mentre istruiscono, contemporaneamente educano civicamente. Ciò che conta è che l’alunno sia protagonista del processo educativo, perché la cultura si costruisce non con un’iniezione ma attraverso la conquista.
Settimo: tutto ciò comporta un drastico ridimensionamento della lezione frontale, oggi monopolista della scuola secondaria. Si impari dalle elementari che, per fortuna, sono state contaminate molto meno dal gentilismo, che ha provincializzato la nostra scuola secondaria. Comporta anche un cambiamento culturale ed architettonico della struttura scolastica, della sua organizzazione, dei suoi edifici, con un drastico ridimensionamento del modello monopolistico della classe, delle file rigide di banchi.
I Paesi evoluti hanno cancellato queste tradizioni, hanno cambiato tutto mentre da noi non ci si accorgeva di questa necessaria rivoluzione. La centralità dell’apprendimento non basta declamarla, bisogna realizzarla. Cambia la funzione del docere – che si sposta in prevalenza sul guidare e stimolare chi apprende – e cambia la natura del discere. Esso deve diventare vero e proprio processo e conquista perché è la base del coinvolgimento educativo, condizione ineludibile di successo dell’altra grande rivoluzione contemporanea: la scuola di tutti e per tutti. Il diritto di tutti ad imparare, almeno fino a diciotto anni, a seconda delle proprie potenzialità. Senza il coinvolgimento dei discenti, la scuola di tutti fallisce. E si resta fuori dalla società della conoscenza.
In Finlandia e in Corea, che sono al vertice delle statistiche scolastiche internazionali, abbiamo i maggiori successi nella formazione dei talenti e insieme il miglior risultato medio e il più efficace sostegno anche a favore degli alunni meno brillanti. Quantità e qualità, equità ed eccellenza non sono inversamente proporzionali, anzi sono due facce della stessa medaglia, voci complementari. Non è giusto né efficace far prevalere i talenti a discapito della qualità di massa. Bisogna valorizzare il merito dei più bravi insieme al merito di tutti. Sono queste le basi dei valori condivisi che devono reggere le comunità educanti di una società della conoscenza che sia necessariamente democratica, partecipata. Le basi di un sistema di regole anch’esse condivise, e quindi della stessa disciplina scolastica, di comportamenti civici dettati da norme e insieme dello stesso processo di apprendimento, nell’affascinante viaggio della conoscenza.
Luigi Berlinguer