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Compiti a casa, lo strumento migliore per l’apprendimento?

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I compiti «servono» giacché permettono di «consolidare» gli apprendimenti, «automatizzare» le procedure, «imparare» a studiare; inoltre offrono ai genitori l’occasione per interagire e dialogare con i figli in modo più ricco e coinvolgente, rispetto alle attività domestiche.

Eccellenti opportunità, laddove si diano le condizioni, straordinarie, per poterne profittare; ma cosa accade se i ragazzi non riescono a «consolidare», «automatizzare», «imparare» autonomamente? Siamo certi che i genitori siano sempre in grado di sostenerli in un impegno così oneroso e complesso? Forse i genitori culturalmente e affettivamente attrezzati per farlo… forse; quei genitori che potrebbero fornire ai figli alternative non meno pregnanti e ben più coinvolgenti, defraudati di tale possibilità proprio a causa dell’impegno scolastico, spesso esclusivo ed estenuante: quando hanno finito di fare i compiti (compresi quelli per le vacanze), non hanno più voglia di leggere, scrivere, raccontare, inventare, misurare, calcolare… per il semplice gusto di farlo, per interesse, utilità o per gioco (tutte cose che sarebbe bello, queste sì, poter condividere).

Genitori che comunque non dispongono delle necessarie competenze didattiche (professionali, appunto), costretti a fare appello a reminiscenze lontane, al buon senso, ai quali è demandato il compito che dovrebbero svolgere i docenti sopra ogni altro – tant’è che si è pensato addirittura di inventare manuali per insegnare ai genitori a insegnare ai figli a fare i compiti, cioè per insegnare agli studenti a imparare, delegando alla famiglia il compito principale della scuola.

E i ragazzi più disagiati, difficili, deboli, che non abbiano a casa chi si incarichi di sostituirsi alla scuola?

Paradossalmente, gli studenti sono abbandonati a se stessi nel momento in cui ci sarebbe più bisogno della presenza del docente, quando sono chiamati ad acquisire e affinare le competenze metacognitive, il «metodo di studio».

Ancora: siamo certi che non sia possibile fare a scuola quello che si pretende si faccia a casa? Siamo sicuri che tutto quello che si fa a scuola sia necessario o almeno utile, comunque più importante di ciò che si pretende gli studenti facciano per proprio conto, da soli?

Pare accertato che il 70% delle conoscenze siano oggi acquisite fuori dalla scuola, e che la «permanenza» delle informazioni apprese attraverso l’insegnamento e lo studio non superi i tre mesi (e, ancora oggi, l’insegnamento consiste quasi esclusivamente nella trasmissione verbale di informazioni, da memorizzare e ripetere), mentre le tecniche e le strategie metacognitive (dalla scuola ignorate, o meglio, anzi, peggio, pretese) sono acquisizioni permanenti demandate alla famiglia (se e quando c’è).

Infine, l’immagine da famiglia del Mulino Bianco nella quale il compito diviene l’occasione per interagire e dialogare con i figli in modo più ricco e coinvolgente, rispetto alle attività domestiche, per quanto edificante, elegiaca persino, mal si attaglia alla diffusa e penosa realtà di improperi, minacce, ricatti, suppliche, pianti (sì, molti bambini piangono perché costretti a subire quello che appare loro un castigo immeritato, e talvolta proprio di questo si tratta: i compiti si danno anche per punizione, per giunta “collettiva”).

Del tutto superfluo svolgere un’indagine per quantificare il numero di genitori e studenti che reputano il compito a casa «l’occasione per interagire in modo più ricco e coinvolgente», ma nel caso qualcuno si peritasse di farlo, suggerirei di lasciare uno spazio «aperto» ai commenti degli interessati: sono certo che molti ne approfitterebbero per esprimersi, in modo forse non sempre elegante, ma senza dubbio eloquente.

«Aiutami a fare da solo», esortava Maria Montessori, ancora oggi del tutto inascoltata. Ma come? Pretendendo che gli studenti facciano ciò che non sono in grado o non hanno la forza (anche morale) di fare? O non, piuttosto, scoprendo, costruendo e arricchendo assieme a loro il repertorio dei «gesti mentali» che permettono di affrontare con successo prove altrimenti insostenibili, proponendo modalità di approccio alla conoscenza ancorate ai loro bisogni (e anche ai loro sogni) che consentano di apprezzare la sensatezza della propria condizione, l’utilità del sapere acquisito, e, perché no, la gioia dell’apprendere?

Come ha ben detto Alessandro Bergonzoni «Essere obbligati a ingoiare non significa saper digerire».

 

Maurizio Parodi