Il Dottorato di Ricerca (o Ph.D.) è il titolo di studio più elevato attribuito in Italia. Il titolo si consegue al termine di uno specifico percorso professionalizzante, al quale si accede dopo aver superato un pubblico concorso.
Pur costituendo il titolo di formazione più alto, riconosciuto a livello internazionale, esso è paradossalmente sottostimato proprio nei comparti della Scuola e dei percorsi finalizzati all’insegnamento e nella Pubblica Amministrazione.
Se ci soffermiamo a riflettere sull’ambito scolastico, la sottostima di questo titolo appare in tutta la sua drammatica attualità. In pratica, i Dottori di ricerca possono formare i futuri insegnanti nei corsi abilitanti, ricevere incarichi di docenza universitaria a contratto, in Italia e all’estero, ma non possono insegnare stabilmente nelle scuole Primarie e Secondarie, perché relegati nella terza fascia delle graduatorie di Istituto.
In Italia, per accedere al percorso che conduce al ruolo nel comparto scolastico, i Dottori di Ricerca sono sottoposti a un iter selettivo che, di fatto, misconosce anche le competenze disciplinari acquisite nel percorso dottorale (che dura 3/4 anni) e garantite dal superamento di un concorso pubblico, che prevede due prove scritte in ingresso, una prova orale, una sulla competenza linguistica a livello B2 e la discussione di una tesi come verifica finale. Se queste competenze ulteriormente acquisite sono valide, non si capisce, ad esempio, perché in un esame per la docenza scolastica, i dottori di ricerca debbano affrontare lo stesso percorso dei neo-laureati o dei diplomati in materie tecniche (ITP) o, comunque, di chi non ha alcuna esperienza di insegnamento, né possiede un’approfondita conoscenza della materia che andrà a insegnare.
Nei giorni scorsi – dopo che i vari Comitati nati per la valorizzazione del Dottorato (tra cui il nostro) si sono battuti e continuano a farlo per sensibilizzare il MIUR e i Governi che si sono succeduti sullo scarso valore che il titolo dottorale ha in Italia e, di riflesso, anche sullo svilimento che lo studio, la ricerca e l’alta specializzazione universitaria stanno acquisendo nella formazione ideale delle nuove generazioni – i sindacati hanno chiesto un accordo sulla stabilizzazione dei “precari storici” (i docenti con 36 mesi di servizio nella scuola Secondaria di I e II grado) e lo hanno trovato sulla creazione di un Percorso Abilitante Speciale appositamente per loro. Tale accordo esclude inspiegabilmente i Dottori di ricerca, la cui esperienza e professionalità è stata forse ritenuta inferiore a quella dei laureati con 36 mesi di servizio. In pratica, al percorso formativo e didattico del dottorato di ricerca (se si escludono i 12 punti assegnati dal MIUR per chi ha un dottorato, e perché poi 12 e non 36 come sarebbe più giusto, se il dottorato è un percorso formativo e professionalizzante che dura tre anni?) non viene attribuito nulla.
Tra le più frequenti giustificazioni addotte per difendere l’esclusione dei Dottori di ricerca da percorsi o concorsi “speciali”, riservati secondo criteri di anzianità di servizio o di abilitazione, vi è quella per cui il Dottorato costituirebbe una specializzazione eccessiva su un unico ambito di ricerca (autori o temi) per cui il possesso di tale titolo non sarebbe ipso facto garanzia di maggiore preparazione in generale rispetto ad un laureato.
Questa valutazione è di tipo contenutistico, entra cioè nel merito dei singoli e variegati percorsi di lavoro scelti da ciascun Dottore, esattamente come ogni laureato sceglie un preciso argomento per la testi triennale e per quella specialistica.
In Italia, però, il titolo di studio ha valore legale: questo significa che, a prescindere da qualsiasi valutazione specifica e nel merito, sulla carta ogni titolo ha un valore ben preciso. E il Dottorato di ricerca è appunto il più alto acquisibile e questo non dovrebbe lasciare spazio ad alcun arbitrio.
Tutto questo è per noi inaccettabile. Eppure, la ricerca non dovrebbe essere considerata “mero” studio perché al termine dei tre anni, il prodotto – che viene giudicato dai massimi esperti sull’ambito disciplinare in cui il Dottore di Ricerca si specializza – è sì una ricerca innovativa, ma la cui produzione ha richiesto sforzo organizzativo, esplicativo e sintetico: tutte doti che se abbiamo conseguito (come attesta il nostro titolo finale) sono necessarie per un buon insegnamento di tipo scolastico.
Ecco perché l’inserimento nella terza fascia delle graduatorie di istituto, insieme ai docenti in possesso del solo titolo di studio valido per l’accesso all’insegnamento, è estremamente penalizzante per un dottore di ricerca. Per ovviare a ciò, le proposte che avanziamo in qualità di Comitato Italiano di Valorizzazione del Ph.D e che riguardano l’ambito scolastico sono:
- Previa l’acquisizione dei 24 Cfu, previsti dal DM 616/2017 negli ambiti antropopsico-pedagogici e nelle metodologie didattiche, chiediamo di esonerare i dottori di ricerca dalle due prove scritte e far sostenere loro solo il colloquio orale, che ha l’obiettivo di valutare il grado delle conoscenze e competenze del candidato nelle discipline facenti parte della classe di concorso, di verificare la conoscenza di una lingua straniera europea almeno al livello B2 del quadro comune europeo, nonché il possesso di adeguate competenze didattiche nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
- Di creare un doppio percorso (come prospettato per i precari con 36 mesi): un corso Abilitante Speciale non selettivo per i Dottori di ricerca che porterà all’immissione in ruolo.
- Di attribuire un punteggio significativo al dottorato di ricerca nel concorso per la scuola primaria e secondaria. Come stabilito nell’art.6 del D.Lgs. 59/2017, il dottorato sarà tra i titoli valutabili; proponiamo che esso valga almeno 36 punti.
- Di valutare adeguatamente la didattica universitaria certificata in fase concorsuale. Oltre al punteggio del servizio scolastico, chiediamo di inserire anche la valutazione di quello universitario, così come già avviene per le graduatorie d’istituto. Suggeriamo di attribuire un determinato punteggio per ogni contratto di docenza universitaria e di didattica integrativa.
- Di valutare adeguatamente Borse e Assegni di ricerca post dottorato e pubblicazioni.
Queste nostre richieste sono state adeguatamente comunicate a tutti i Rettori degli Atenei italiani, al Presidente del Consiglio, al Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e ai suoi Sottosegretari, ai Sindacati italiani.
Al momento, a parte le risposte solidali giunteci da alcuni Rettori, possiamo contare sull’appoggio, per noi importantissimo, dello SNALS che, a nome del suo Segretario, la professoressa Elvira Serafini, ci ha fatto sapere di aver ritenuto la nostra posizione e le nostre richieste ragionevoli e degne di essere rappresentate durante i prossimi incontri che terranno con il MIUR.
Nel frattempo, però, è bene ricordare che i ricercatori fuggono all’estero. L’indagine Istat sul loro inserimento professionale (2015) afferma che, a quattro anni dal conseguimento del titolo, il 18,8% – quasi uno su cinque – lascia l’Italia. Uno spreco enorme di risorse e di competenze: lo Stato prima ha investito nella formazione, pagando un Dottore di ricerca per tre anni, e poi lo lascia andare via. Naturalmente, le imprese, le Università, gli Enti e gli Istituti di ricerca stranieri, ringraziano. Ma chi resta, fatica a trovare un impiego. L’Università, stando ai dati dell’ADI – Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani – assorbe solo il 10% degli assegnisti.
Urge quindi accelerare verso una maggiore e definitiva considerazione di questo titolo, in tutti gli ambiti lavorativi, per fare sì che queste forze altamente specializzate restino a disposizione e vengano impiegate nel nostro Paese. Dunque, partire intanto dalla Scuola sarebbe già un bel riconoscimento e una ridefinizione in senso nobile del valore professionale di un titolo ottenuto da chi ha scelto lo studio, la ricerca e l’insegnamento come base per costruire la propria vita e il proprio futuro.
Comitato Italiano di Valorizzazione del Ph.D