L’espressione “interesse pubblico”, invocato a tutela del bene comune, dalle prime codificazioni giuridiche ad oggi, appare caducata nel dogmatico principio dell’avalutatività, come se fosse un “contenitore formale” privo di contenuto.
A tale principio si ricorre spesso qualora, a fronte di condotte illecite e illegittimità procedurali, le posizioni ragionevoli dei singoli possono essere compresse in favore di uno Stato inteso come ente astratto; tuttavia, se è vero che l’“interesse pubblico” accomuna la generalità delle persone appartenenti ad un dato contesto storico-sociale, non è automaticamente asseribile l’equivalenza assiologica tra “generale” e “pubblico”.
La prima stortura è, allora, nel ritenere che quanto accomuna una generalità di individui si traduca ipso facto in bene comune. Se così fosse, l’interesse pubblico – vis attrattiva in cui converge il particolare – si svuoterebbe di prescrittività e diventerebbe lo strumento indiscusso per rendere intangibili procedure viziate ab imis. Eppure, constatiamo che non di rado, il Foro cede a tale tentazione e sorge legittimo il dubbio che il Legislatore e il Giudice convivano come ex coniugi separati in casa per il bene dei figli.
È quanto è accaduto nella procedura concorsuale finalizzata al reclutamento di dirigenti scolastici (Gazzetta Ufficiale, 4°serie speciale, Concorsi ed Esami – n. 90 del 24 novembre 2017). Sappiamo tutti cosa sia successo tra illazioni e realtà, in un valzer di accuse e denunce che ha investito il MIUR tra ricorsi ad opponendum e ricorsi ad adiuvandum.
Noi ricorrenti abbiamo appurato con sgomento di essere stati defraudati del diritto di conoscere la verità e quando la sezione VI bis del Tar del Lazio, il 02/07/2019, con le sentenze n. 8655/2019 e n. 8670/2019, esprimendosi sul ricorso di una sola candidata, ha poi annullato la procedura, salvaguardando la prova preselettiva, abbiamo di nuovo creduto nella giustizia, perché si sono riespansi i principi posti a presidio del buon andamento e dell’imparzialità, quegli stessi che ci hanno fatto innamorare nel mentre lo studio irrorava – non senza sacrificio – lo spazio assoluto della mente e del cuore.
Come accettare, d’altronde, che si avallasse una procedura viziata da disparità di trattamento, violazione di anonimato, incompatibilità di taluni commissari e discrezionalità valutativa latamente intesa? Senza menzionare le altre doglianze, ormai note alla generalità delle parti, l’accoglimento del ricorso, soprattutto in un settore di rilevanza civica primaria, quale la scuola, ha dimostrato l’incarnazione del Diritto nella realtà, indipendentemente dalle machiavelliche ragioni di Stato.
Nessun ricorrente (solo per semplificazione terminologica ci definiamo tali) ha tuttavia esultato contro coloro che meritatamente hanno superato la prova scritta, anteponendo lo studio alle pur cogenti ragioni di vita. Ma poi, con inusitata tempestività, qualcuno ha prospettato la criticità derivante dalla reiterazione delle reggenze per l’anno scolastico 2019/2020, invocando la pretesa e insindacabile imperatività del famoso interesse pubblico. Ed ecco allora che il MIUR ha presentato appello al Consiglio di Stato il quale, in data 12/07/2019, ha emesso, con ordinanza cautelare n. 03514 del 2019, la sospensione dell’esecutività della sentenza di annullamento.
Ora, ci chiediamo nel foro intimo della coscienza, se davvero avallare una procedura anticostituzionale significhi tutelare l’interesse pubblico, se quest’ultimo possa essere garantito immettendo in ruolo pseudo vincitori la cui riserva ha il peso insostenibile dell’illecito. La domanda è naturalmente retorica e questo lo sanno gli attori della vicenda. Non parimenti nota all’opinione pubblica è, nondimeno, la natura paradossalmente antiguridica della predetta ordinanza sospensiva, soprattutto al vaglio delle probabili conseguenze. Si ricordi che la procedura concorsuale è finalizzata pur sempre al reclutamento dei dirigenti scolastici, di coloro, cioè – si perdoni la parvenza tautologica dell’inciso – che assumeranno la rappresentanza legale delle istituzioni scolastiche, la direzione, il coordinamento e la gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali – si perdoni altresì la pedanteria citazionistica.
Ma chi è davvero il dirigente scolastico? Qual è il suo ruolo nella meravigliosa e tremenda avventura di vita che ogni bambino attraverso senza comprenderne l’irreversibilità? Nel passo brevissimo e irto che separa il bambino dall’uomo ci siamo noi, ci siamo tutti senza distinzione alcuna, ognuno con le proprie responsabilità. E allora, come educare questo magma umanissimo di ragione e sentimento, di assenso e ribellione al principio di legalità, se la mano che addita alla giustizia è la stessa che la cancella? Come istillare l’amore per il diritto imparziale se chi lo professa lo ha già barattato per il proprio interesse? Ecco perché è nato Il Comitato “Trasparenza è partecipazione”, organismo creato “dal basso” per iniziativa di un gruppo di docenti che ha esperito in prima persona la delittuosa profanazione dei principi costituzionali, senza giammai genuflettersi con collusa rassegnazione, perché il “sistema” corrotto ha una fisionomia concreta, ha volti e nomi e responsabilità plurime. Il Comitato non è l’ennesimo ente astratto dall’incedere macchinoso e ingolfato: il Comitato siamo noi.
Non rinneghiamo la sovrapponibilità tra interesse pubblico e “interessi pubblici” qualificati come tali dagli apparati politici e amministrazioni, ma non ne accettiamo la deriva formalistica: la scuola, luogo di sperimentazioni riformistiche non di rado nocive, è davvero “cosa pubblica”, è davvero vita inscenata senza aver fatto le prove dietro le quinte e non può soggiacere alla logica sanante dell’illegalità dietro il vessillo corroso di un superiore interesse pubblico.
In attesa della pronuncia del Consiglio di Stato, mentre si consumerà la quiete agostana, qualcuno avrà già deciso senza svelare le proprie carte e forse si consolideranno le irragionevoli ragioni di chi pretende che la verità sia scomponibile e riadattabile ad libitum. Noi crediamo invece che l’interesse pubblico non possa che promanare dalla legalità e in essa confluire, senza distinzioni faziosamente ideologiche perché siamo tutti dalla stessa parte.
La condizione irriducibile è nella creazione di un dialogo polifonico tra forze politiche, sindacali e opinione pubblica, perché l’esercizio della verità e della giustizia è, nello stesso tempo, diritto incomprimibile dell’individuo e interesse pubblico sovraindividuale.
Il comitato “Trasparenza è partecipazione”