Dei problemi del nostro sistema scolastico parliamo con il professore Miguel Gotor, responsabile nazionale Scuola e Università di Art.1
Professor Gotor, lei pensa che in Italia la scuola e l’università abbiano quell’attenzione e quella “cura” verso le nuove generazioni che all’inizio degli anni Sessanta, Aldo Moro raccomandava alla classe dirigente?
No, perché rispetto ad altri Paesi non si è ancora capito che il finanziamento pubblico della scuola non è una spesa ma un investimento sul futuro dell’Italia. I dati dell’Ocse dicono che l’Italia investe il 3,6 per cento del Pil contro la media internazionale del 5 per cento. La scuola italiana rappresenta sempre più un luogo di “resistenza civile”, dove un esercito di insegnanti mal pagati, con uno scarso riconoscimento sociale, spesso messi sotto assedio dalle famiglie che scaricano su di loro una serie di proprie inadempienze educative, svolgono in trincea un ruolo fondamentale di supplenza, di coesione sociale, di formazione e di educazione alla cittadinanza.
Con una battuta direi: più risorse e meno “riformite”. La scuola italiana ha soprattutto bisogno di stabilità e di regole certe.
Cosa pensa dell’Educazione Civica, come una disciplina a sé stante?
Moro inserì questo insegnamento nel 1958, ma esso è rimasto sempre la “grande Cenerentola” della didattica italiana. Il risultato è che gli italiani mostrano una sostanziale e diffusa ignoranza delle nozioni basilari relative al funzionamento dello Stato, ai contenuti della Costituzione, all’educazione sanitaria e ambientale, alla conoscenza dei loro diritti e doveri fondamentali e alle diverse forme di partecipazione civica e cittadinanza attiva. Come Articolo 1 siamo favorevoli a rafforzare l’educazione alla cittadinanza e la formazione degli insegnanti.
Si ha proprio bisogno di aggiungere una disciplina che potrebbe sacrificare l’insegnamento della Storia o di un’altra materia?
Secondo me lo studio della storia costituisce un’utile forma di educazione civica e quindi è possibile più che in altri casi integrare e coordinare questi due insegnamenti.
La Scuola è stata un’istituzione che ha concorso all’unificazione linguistica e culturale del nostro Paese fin dall’epoca dei governi post unitari. Quali sono i pericoli di un’autonomia differenziata sebbene solidale presente nell’attuale intesa di Governo nel campo dell’istruzione?
Sono gravi perché aumenteranno la disuguaglianza nazionale. Perciò auspichiamo che il nuovo governo riveda le posizioni del precedente dando prova di quella discontinuità proclamata all’atto del suo insediamento. Il passaggio della Lega all’opposizione dovrebbe consentirlo. L’istruzione scolastica e universitaria devono rimanere un bene nazionale proprio per la funzione fondamentale che continuano a svolgere sul terreno dell’unità e della coesione sociale.
Faccio un esempio concreto: i dati della dispersione scolastica, per ragioni sociali ed economiche diverse, sono preoccupanti sia in Veneto sia in Campania e spetta allo Stato ridurli a beneficio dell’intera comunità nazionale.
E ancora: gli ultimi dati Invalsi ci dicono che un terzo degli studenti meridionali non hanno le competenze minime per entrare nel mercato del lavoro, ma i divari territoriali che colpiscono i minori sono intollerabili e costituisco una perdita netta di “capitale umano” per l’intero Paese.
Proprio nelle zone dove la povertà educativa è più accentuata mancano i servizi per la prima infanzia, il tempo pieno a scuola e altre opportunità di crescita e di futuro.
Lei ha definito la riforma realizzata dal suo ex partito, il PD, nel corso della diciassettesima legislatura “La Cattiva scuola”. Ci spiega il perché?
La legge 107 è stata un errore che il PD ha pagato caro. Già allora se ne aveva la consapevolezza ma il gruppo dirigente renziano volle proseguire lo stesso per testardaggine e per ribadire una logica di disarticolazione del rapporto con i sindacati. C’è stato un incredibile deficit di ascolto e un’impostazione manageriale del rapporto tra presidi e insegnanti che ha rappresentato il limite culturale maggiore della riforma.
I problemi principali della scuola italiana sono essenzialmente due rispetto agli altri Paesi europei: un tasso di dispersione scolastica troppo alto e un corpo insegnanti troppo anziano. Invece di affrontare questi due nodi si è preferito sposare in modo tardivo e ideologico un modello di intervento neo-liberista che ha provocato il sostanziale rifiuto della riforma da parte del mondo della scuola.
Quali, secondo Lei sono gli istituti da abrogare, quali da confermare e quali da correggere della 107 del 2015?
Fra i decreti attuativi della 107 sarebbe necessario rivedere il decreto sul sostegno e quello sul reclutamento: il primo contiene parti non coerenti con i principi e i valori dell’inclusione; il secondo perché la chiamata diretta e la spada di Damocle della riconferma triennale da parte del dirigente ledono l’autonomia professionale dell’insegnante e possono portare al verificarsi di situazioni di ricatto e di pressione psicologica offensive
. Sarebbe anche opportuno abolire il bonus docenti, non solo perché la sua applicazione non ha funzionato ma perché è sbagliata la sua filosofia: il lavoro straordinario va retribuito non in modo discrezionale.
Le infrastrutture devono essere adeguate agli standard di sicurezza, proseguendo il positivo impegno profuso dal governo Renzi in questo ambito. Bisogna, infine, aumentare gli investimenti per evitare che alcuni interventi positivi sul piano dell’ispirazione come l’alternanza scuola-lavoro, l’educazione alla salute o l’apertura estiva delle scuola restino soltanto delle buone intenzioni dal momento che non possono realizzarsi a risorse invariate.