Tutti a discutere, a ragione o meno, con elementi o meno, su quanto sicure siano le scuole e quanto efficaci siano state le “manovre” messe in atto affinché la scuola ripartisse in sicurezza. Sì, la scuola è (ad oggi e a
quanto io vedo) un ambiente abbastanza sicuro, le norme previste vengono grossomodo ben rispettate e i ragazzini, seppur opponendosi, riescono a reggere (più o meno) le regole strette e la riduzione delle possibilità di spostamento nei locali scolastici e anche l’azzerata (forse) commistione tra ragazzi di classi diverse e il tanto auspicato distanziamento (spesso solo teorico).
I “casi” trovati non hanno origine a scuola ma provengono dal contesto familiare e, con tutti gli accorgimenti messi in atto, non avviene (almeno dove io lavoro) una esplosione di contagi tra ragazzi, fino ad ora. Ma il problema che non esce nei dibattiti è la paralisi che ormai è in atto nelle scuole nel seguire il protocollo sanitario. Il protocollo sanitario (buracratico
soprattutto) che dirigenti e docenti e personale ata stanno dovendo attuare è mostruoso, complesso e spesso ridondante e che richiede moltissimo tempo, che riduce poi di fatto il “tempo didattico”, inasprendo animi,
stancando personale, ragazzi e, soprattutto, esasperando le famiglie. E dove si impantana questo protocollo?
Nei rapporti con le asp, le “povere” asp che stanno annaspando gestendo una mole impressionante di richieste, ricoveri, analisi e fogli di carta. In qualsiasi protocollo, se una maglia gira male (n.d.r. Asp), si blocca tutta la catena. E succede che tutta la struttura scolastica, la tempistica e i ritmi vengono bloccati, alterati: le famiglie si stressano e si spaventano, perdono la fiducia e si perde tantissimo tempo, tempo che viene usato di fatto solo per reggere in piedi la “struttura” e non per la funzione didattico-educativa
dell’Istituzione scuola. E poi c’è un aspetto importantissimo, i ragazzi diversamente abili e le famiglie alle loro spalle.
Chi parla tanto di scuola, senza sapere granchè o ragionandoci solo per analogie, non ha idea di cosa significa far fare un (1 2 3 4 5….) tampone orofaringeo ad un ragazzino con diagnosi importanti o con seri disturbi del comportamento, spesso lì il protocollo non è che rallenta: vai in “stop”. Spesso le famiglie pur di non far fare e rifare un tampone o di non rischiare che quel ragazzino possa finire ospedalizzato se positivo sintomatico, limitano (ed è un eufemismo) la presenza del ragazzo a scuola. E che colpa gli possiamo dare? Nessuna.
Poi ci sono le famiglie, sì mi concedo un termine politically “incorrect”, ignoranti cui spiegare e far digerire un protocollo sanitario scolastico e lì altra catastrofe. Insomma questa è la scuola, anche questa e non solo quella dei ragazzini con la camicetta stirata con l’ipad in mano, in una aula hitech con le sedioline laccate e i banchetti puliti. E se si mettono tanto a dire che la dad (o ddi) accentua i divari socioeconomici o che fa aumentare la dispersione scolastica, allora è corretto intellettualmente anche raccontare i divari attualmente in atto con la didattica in presenza, immersa in un cavilloso protocollo sanitario, e la dispersione scolastica che sta già galoppando in “presenza”.
E’ indubbio, e non dovrebbe nemmeno essere a dibattito, che ogni processo didattico ha valenza se immerso in un rapporto umano dove la comunicazione non è solo quella verbale o visiva, e che il processo di
insegnamento-apprendimento viaggia sul canale delle emozioni; quindi la didattica a distanza (l’acronimo più accattivante lo scelga il lettore) è chiaramente qualcosa di monco e che può reggere malamente solo per
un periodo breve, però è anche vero che la discriminante tra una possibilità e una altra deve essere solo il rischio relativo ai contagi e alla tenuta del servizio sanitario e non altro. Perché ad oggi la scuola è impantanata in un protocollo che la tiene frenata, che esaspera la dispersione e che tiene tutti in un canale emozionale tutt’altro che positivo.
Non ho tempo e voglia di scrivere soluzioni magiche o lettere a babbo natale o far ragionamenti del “io avrei fatto” o “si sarebbe potuto”, sono inutili e non è mio compito e ad ognuno il suo mestiere. Però è giusto che i
fatti vengano raccontati da chi li vive e non da chi li deduce per analogia e nemmeno da chi li accomoda per supportare la propria tesi.
Alla luce di quanto detto, auspico che chi governa faccia le scelte basandosi solo sulle strategie migliori per ridurre i contagi, i ricoveri e per alleggerire il pesante carico sanitario delle asp, determinato anche dal protocollo relativo alla scuola. La realtà di chi la scuola la vive non è quella che raccontano.
Fabio Scaccianoce