In queste ultime settimane sono stati molti i campanelli d’allarme lanciati da medici e psicologi relativamente agli effetti negativi della pandemia sugli adolescenti. Il professor Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell’ospedale Bambino Gesù, ha espresso la sua preoccupazione per l’aumento di circa il 30% di casi di autolesionismo e tentativi di suicidio tra i giovanissimi soprattutto durante la cosiddetta seconda ondata della pandemia.
Anche lo psichiatra e psicoterapeuta Furio Ravera, direttore del Reparto Disturbi della Personalità della Casa delle Betulle di Milano, sottolinea quanto sia allarmante la crescita di stati di ansia e solitudine tra i ragazzi alcuni dei quali possono anche arrivare a sfiorare l’idea che morire sia più importante che vivere.
Lo stesso Ravera afferma che si tratta di un “tema drammatico, delicato e urgente: bisogna parlarne, ma parlarne bene e con le parole giuste”. La perdita della socialità, della dimensione della scuola come luogo di aggregazione, del divertimento e dello sport hanno acuito sensazioni di insoddisfazione, solitudine e frustrazione che possono esprimersi in situazioni emotive vissute dai più fragili o più sensibili come intollerabili.
Le reazioni a questo stato di cose possono essere caratterizzate da aggressività e insofferenza oppure da tendenza all’isolamento e alla chiusura in se stessi. E’ necessario potenziare la rete territoriale di ascolto e aiuto per intercettare precocemente i livelli di sofferenza cercando di arginarli prima che gesti irreversibili si abbattano come ombre scure sulla vita quotidiana dei giovani. In questa prospettiva il fatto che la scuola sia aperta è un bene da salvaguardare.
Come madre di un adolescente concordo con chi dice che è necessario tutelare e assistere le famiglie potenziando quel servizio fondamentale rappresentato dagli sportelli psicologici nelle scuole e incrementando la rete di assistenza sul territorio. Come insegnante sto mettendo in discussione e sto ripensando il mio ruolo forse in ritardo, perché sicuramente tanti altri colleghi lo avranno già fatto prima di me.
E se ho sempre pensato che l’istruzione sia legata all’educare più largamente inteso ora più che mai mi interrogo sulla validità della modalità di trasmissione del sapere legata al modello lezione-controllo-voto. In questo momento di crisi pandemica finire a tutti i costi il programma non è più una priorità, è opportuno che i compiti in classe e le interrogazioni cedano il passo alla circolarità, alla cooperazione, alla ricerca collettiva e all’ascolto, affinché le ragazze e i ragazzi possano percorrere con meno ansia possibile e attraverso le relazioni il processo di insegnamento/apprendimento sperimentando le proprie capacità e i propri limiti senza avere paura dell’incontro con l’altro e andando verso il futuro con fiducia.
Cinzia Bifarini