La proposta di riforma del reclutamento dei docenti e del loro sviluppo di carriera presentata dal ministro Patrizio Bianchi nella giornata del 12 aprile non avrà vita facile.
Le avvisaglie si sono viste fin dalle prime ore: alla comprensibile protesta delle organizzazioni sindacali che dicono che reclutamento a parte tutto il resto è materia contrattuale e non può essere regolato per decreto, si aggiunge anche il “malumore” delle forze politiche che vedono sempre più esautorato il ruolo del Parlamento.
Ma c’è anche una questione di merito su cui varrebbe la pena soffermarsi.
Nella bozza di decreto che sta circolando si legge che chi frequenterà attività di formazione significative avrà diritto a scatti stipendiali aggiuntivi rispetto a quelli di anzianità. Ma – si legge sempre nella bozza – bisognerà anche verificare che gli studenti di quei docenti migliorino i propri risultati di apprendimento.
E qui si pone un problema molto complicato da risolvere.
Come si “misureranno” i risultati degli studenti?
Ci sono due strade: o si farà riferimento alle “votazioni” riportate dagli alunni a fine anno mettendole in relazione con il “curriculum” del docente o si farà riferimento agli esiti delle prove Invalsi.
Nel primo caso è evidente che l’operazione potrebbe condurre ad effetti del tutto indesiderati perché potrebbe capitare che i docenti che frequentano attività di formazione siano indotti a dare valutazione più “generose” ai propri studenti.
Nel secondo caso (valutazione con riferimento alle prove Invalsi) la questione sarebbe ancora più complicata perché le prove Invalsi non si svolgono in tutte le classi e, soprattutto, non per tutte le discipline.
Gli insegnanti di storia, di arte o di filosofia come potranno “dimostrare” che la loro formazione è servita a migliorare i livelli di apprendimento dei loro studenti?
Insomma, al di là di ogni considerazione politica o sindacale, a noi pare che l’idea di Bianchi, buona o cattiva che sia, risulti quasi del tutto irrealizzabile.
Inoltre c’è da tenere conto di un altro aspetto di non poco conto.
Se anche il decreto dovesse andare in porto entro fine giugno, come il Governo spera, sarà necessario almeno un successivo decreto ministeriale applicativo che fornisca le indicazioni pratiche per renderlo operativo.
Basterà scrivere che il decreto applicativo dovrà essere adottato entro 6 mesi, come spesso accade, per rimandare tutto ai primi mesi del 2023, quando cioè questo Governo non sarà neppure più in carica.
E, se con le elezioni politiche dovesse cambiare la maggioranza, la riforma finirebbe in una vera e propria bolla di sapone.