Se dovessimo dar un nome alle nostre classi le chiameremmo “Le classi dei poeti estinti” (in omaggio alla leggendaria classe del leggendario prof. Keating).
Dentro queste mura ci sono piccoli uomini, piccole donne che sprizzano poesia dagli occhi, dalle labbra, dai gesti.
E qualcuno anche, letteralmente, dalla penna.
La poesia la cogliete per forza, se li osservate, li ascoltate, ci dialogate ogni giorno.
Poesia è loro scoperta continua di sé stessi, degli altri, della scrittura, dei numeri, della conoscenza.
Poesia sono le loro intuizioni repentine, le loro associazioni d’idee così spiazzanti, eppur così geniali.
Poesia sono i bigliettini d’amore che si scambiano i fidanzatini di turno, i disegni fatti su carta riciclata che ci donano per puro amore, i loro ingenui sotterfugi per sottrarsi alla “fatica” del giorno.
Poesia è quando imparano a legarsi le scarpe sotto i nostri occhi e ce lo annunciano con orgoglio.
La poesia è anche nell’errore che serve a loro e a noi per trarne insegnamento lungo tutto il percorso.
È altamente poetico quando scorgiamo in ognuno la propria vocazione in nuce.
Ancor più poetico accorgersi che ci siamo “addomesticati” per tanti anni quasi senza accorgercene.
È, infine, quasi lirico quando, dopo dieci anni o più, scopriamo che una di quelle vocazioni è stata ascoltata, perseguita e divenuta realtà.
La scuola invalsificata rappresenta l’esatta negazione di tutto questo.
Perché non c’è poesia in un bambino di sette o dieci anni che compila inseguito dal cronometro.
Perché non è un sistema concepito per rilevare la poesia dell’apprendimento, tutti i progressi fatti lungo la strada, il cammino educativo che alunno e maestro hanno percorso insieme.
Daniela Marras