Sono consapevole che sottoporrò alla vostra gentile attenzione un argomento noto, anzi arcinoto, poco originale e poco accattivante. Sono consapevole persino che nel nostro Paese le argomentazioni non vanno di moda: bisogna urlare, alzare la voce e i forconi, fare gesti eclatanti, essere “personaggi”, forse aver scritto qualche libro per ricevere la giusta attenzione sia dell’opinione pubblica sia di coloro che avrebbero il compito di risolvere i problemi dei cittadini come me. Arrivo al dunque: sono un’insegnate precaria, ormai da 10 anni, laureata, abilitata e con servizio.
Insomma, una qualsiasi lavoratrice di questo Paese. Sono una dei tanti che ogni giorno fa due ore di macchina per raggiungere la propria sede di lavoro, senza alcun rimborso spese-viaggio; sono una dei tanti che non ha più pagate le ferie non godute e che vede il proprio contratto di lavoro prorogato di mese in mese perché le supplenze annuali (cioè quei miraggi contrattuali che vanno dal 1° settembre al 30 giugno) sono state spazzate vie dalle cesoie ministeriali risalenti all’era Gelmini.
Sono una di quei tanti per i quali le vacanze estive hanno il sapore della disoccupazione mista alla profonda incertezza su ciò che accadrà da settembre in poi.
Dimenticavo: Sono una di quei 170mila insegnanti che da mesi e mesi non vedono retribuito il proprio lavoro quotidiano, ma che si accollano la grande responsabilità di educare e istruire quello che dovrebbe rappresentare la risorsa più preziosa di un paese, ossia i giovani, ossia il futuro. In effetti non sto raccontando niente di nuovo: di precarietà sono piene le vite di chiunque in questo Paese. Io , però, non altri mezzi per esternare un profondo malessere e disagio che mi suggerisce di non fare più il mio dovere e comportarmi come un disonesto qualsiasi (che, a quanto pare, in Italia è un esemplare rispettabilissimo e socialmente tenuto in considerazione). Qual è allora il problema? Non riesco a entrare in classe e non rappresentare quei valori sui quali è nata la Scuola Pubblica Statale, così ben ritratta dalla Costituzione. Non riesco a dimenticare che ho un compito cruciale, nevralgico, determinante. Non riesco a dimenticare quanto, nella mia adolescenza, siano stati fondamentali alcuni miei insegnanti che mi hanno aperto la mente, regalato fiducia e consapevolezza del mio agire e pensare. Sono disposta a venir considerata da questa cieca Italia una “parassita” che lavora solo 18 ore a settimana con tre mesi di vacanze, ma non sono disposta a vedermi calpestata nei più elementari diritti, nonostante il silenzio assordante del mondo circostante che sta lasciando morire non solo gli insegnanti, ma soprattutto la scuola, unica agenzia educativa-formativa capace di garantire realmente una possibilità di riscatto. Mi rimane solo un atroce dubbio: nel continuare a fare il mio dovere, nonostante la palese ingiustizia, che messaggio sto lanciando ai miei alunni? Supina sopportazione e rassegnazione o stoico senso di responsabilità? Non so darmi alcuna risposta, al momento.
Insomma, una qualsiasi lavoratrice di questo Paese. Sono una dei tanti che ogni giorno fa due ore di macchina per raggiungere la propria sede di lavoro, senza alcun rimborso spese-viaggio; sono una dei tanti che non ha più pagate le ferie non godute e che vede il proprio contratto di lavoro prorogato di mese in mese perché le supplenze annuali (cioè quei miraggi contrattuali che vanno dal 1° settembre al 30 giugno) sono state spazzate vie dalle cesoie ministeriali risalenti all’era Gelmini.
Sono una di quei tanti per i quali le vacanze estive hanno il sapore della disoccupazione mista alla profonda incertezza su ciò che accadrà da settembre in poi.
Dimenticavo: Sono una di quei 170mila insegnanti che da mesi e mesi non vedono retribuito il proprio lavoro quotidiano, ma che si accollano la grande responsabilità di educare e istruire quello che dovrebbe rappresentare la risorsa più preziosa di un paese, ossia i giovani, ossia il futuro. In effetti non sto raccontando niente di nuovo: di precarietà sono piene le vite di chiunque in questo Paese. Io , però, non altri mezzi per esternare un profondo malessere e disagio che mi suggerisce di non fare più il mio dovere e comportarmi come un disonesto qualsiasi (che, a quanto pare, in Italia è un esemplare rispettabilissimo e socialmente tenuto in considerazione). Qual è allora il problema? Non riesco a entrare in classe e non rappresentare quei valori sui quali è nata la Scuola Pubblica Statale, così ben ritratta dalla Costituzione. Non riesco a dimenticare che ho un compito cruciale, nevralgico, determinante. Non riesco a dimenticare quanto, nella mia adolescenza, siano stati fondamentali alcuni miei insegnanti che mi hanno aperto la mente, regalato fiducia e consapevolezza del mio agire e pensare. Sono disposta a venir considerata da questa cieca Italia una “parassita” che lavora solo 18 ore a settimana con tre mesi di vacanze, ma non sono disposta a vedermi calpestata nei più elementari diritti, nonostante il silenzio assordante del mondo circostante che sta lasciando morire non solo gli insegnanti, ma soprattutto la scuola, unica agenzia educativa-formativa capace di garantire realmente una possibilità di riscatto. Mi rimane solo un atroce dubbio: nel continuare a fare il mio dovere, nonostante la palese ingiustizia, che messaggio sto lanciando ai miei alunni? Supina sopportazione e rassegnazione o stoico senso di responsabilità? Non so darmi alcuna risposta, al momento.