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La mancata assunzione dei 250mila precari costa allo Stato 700 milioni di euro l’anno

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È l’effetto della legge 92/2012, che ha introdotto le indennità AspI e mini-ASpI, per indennizzare i lavoratori subordinati rimasti disoccupati: un versamento all’Inps, riservato al personale non di ruolo, che per l’amministrazione pubblica comporta un aggravio variabile tra i 2.500 e i 3mila euro annui a lavoratore.
Pacifico (Anief-Confedir): viene da chiedersi quale vantaggio può ancora avere il nostro Stato nel mantenere una posizione anacronistica e per cui presto la Corte di Giustizia europea potrebbe decidere di infliggere sanzioni da milioni di euro.
Si parla tanto di spending review e di spesa pubblica eccessiva. Per questo il Governo starebbe preparando altri tagli. Ma farebbe bene a guardare anche agli sprechi. Come quello che da un paio di anni le amministrazioni statali attuano per mantenere in vita il proprio “esercito” di 250mila dipendenti precari. Secondo l’ufficio studi dell’Anief, la loro assunzione in ruolo permetterebbe un risparmio annuo immediato di almeno 750 milioni di euro l’anno: basterebbe che lo Stato italiano decidesse finalmente di assumerli a tempo indeterminato, mettendo così anche la parola fine alle procedure di infrazione attivate dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia per l’abuso di contratti a tempo determinato.
L’esborso si deve a una normativa relativamente recente, contenuta nella Legge 92 del 2012, che solo per il personale non di ruolo prevede un versamento ulteriore all’Inps, in proporzione allo stipendio, come conseguenza di due nuove indennità (ASpI e mini-ASpI) finalizzate a finanziare un “tesoretto” utile a indennizzare i lavoratori subordinati che, loro malgrado, dovessero rimanere disoccupati: in media, per il personale della scuola si tratta di circa 2.500 euro l’anno che lo Stato deve pagare in più. Una sorta di tassa sulla precarietà, che lo stesso “datore di lavoro” ha deciso di non estirpare. Ora, essendo diventati oltre 140mila i supplenti annuali della scuola, con contratto sino al 30 giugno o al 31 agosto (dati Ragioneria dello Stato, attraverso il Conto annuale, pubblicati appena qualche giorno fa), il salasso che lo Stato è chiamato a pagare ogni anno per loro è di ben 350mila euro.
“Ma negli altri comparti della pubblica amministrazione – sottolinea Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – ci sono altri 110mila precari con almeno tre anni di servizio svolto: 30mila nella sanità e quasi 80mila tra ministeri vari, enti locali e regioni. Considerando che gli stipendi medi della scuola sono inferiori a quelli percepiti negli altri apparati pubblici, vanno considerati come inutilmente spesi almeno altri 350 milioni di euro l’anno. Sempre per la doppia indennità, AspI e mini-AspI, riservata a dipendenti non di ruolo. Viene da chiedersi – incalza il sindacalista – quale vantaggio può avere il nostro Stato nel continuare a mantenere una posizione sbagliata sull’assunzione definitiva dei 250mila precari dell’amministrazione pubblica”.
Va ricordato, inoltre, che all’inutile esborso di 700 milioni di euro annui va aggiunto il rimborso economico che il Paese potrebbe essere chiamato a saldare per l’abuso di ricorso al precariato. Tanto è vero che, oltre alle procedure di infrazione avviate ormai da tempo, il 12 dicembre scorso la Corte di Giustizia Europea con due provvedimenti coordinati ha bocciato senza appello la legislazione italiana in materia di negazione delle tutele effettive contro gli abusi nell’utilizzazione dei contratti a tempo determinato alle dipendenze di pubbliche amministrazioni. Con le ordinanze Carratù e Papalia ha indicato allo Stato italiano la necessità impellente di rivedere le norme e la prassi in materia.
Ma i rilievi della Commissione Ue sul tema sono continui. Pochi giorni prima, a novembre, Bruxelles aveva ricordato al governo italiano che tanti suoi dipendenti continuano ad essere “impiegati con contratti a termine ma ‘continuativi’, per molti anni”, lasciati “in condizioni precarie nonostante svolgano un lavoro permanente come gli altri”. E questa situazione “è contraria alla direttiva sul lavoro a tempo determinato”. Senza dimenticare che con l’ordinanza n. 207/13, la Corte Costituzionale ha rinviato alla stessa Corte di Giustizia europea la questione sulla compatibilità della normativa italiana con la direttiva comunitaria, sempre sulla reiterazione dei contratti a termine e sul mancato risarcimento del danno per docenti e Ata precari della scuola con almeno 36 mesi di servizio.
“Se la Corte di Giustizia di Lussemburgo dovesse condannare l’Italia – ricorda Pacifico – per le casse statali sarebbero guai ancora più seri: la Corte, infatti, potrebbe condannare il nostro Paese a pagare fino a 8 milioni di euro per ogni singolo caso esaminato. In tal caso sarebbe ancora più evidente che sui contratti a termine la pubblica amministrazione italiana è il primo ‘attore’ che tradisce la normativa comunitaria in materia. Non a caso i pubblici dipendenti di ruolo sono scesi in pochi anni da 3 milioni e mezzo a poco più di 3 milioni. Peccato che non si servito a nulla, visto che l’indebitamento statale nello stesso periodo si è alzato di 10 punti”.