Riceviamo e pubblichiamo le riflessioni e i suggerimenti della community di Rete SupeRare
Chi conosce il mondo della disabilità sa benissimo che, al termine della scuola dell’obbligo, le famiglie con figli disabili perdono la gran parte dell’attenzione delle istituzioni pubbliche e si ritrovano sole ed impreparate ad affrontare le sfide quotidiane, in una continua ricerca della garanzia dei propri diritti, dei sostegni spesso insufficienti. Sia che si scelgano gli studi universitari o che si opti per l’inserimento nel mondo del lavoro, ci si accorge che gli strumenti progettuali che fino a quel momento hanno accompagnato la storia di vita del ragazzo disabile ai fini della realizzazione al diritto all’educazione ed all’istruzione attraverso il PEI (piano educativo personalizzato), non facevano parte di una logica combinata di ampio respiro del progetto di vita, nel quale il PEI avrebbe dovuto costituire solo la parte iniziale. Le famiglie si accorgono che, oltre al PEI, i contenuti del progetto individuale sono in realtà spesso assenti o frammentati, senza logiche di continuità tra età evolutiva ed adulta, a volte sovrapposti, in situazioni spesso condizionate da difformità territoriali che amplificano le disuguaglianze sociali. Tutto ciò benché l’art.14 della legge 328/2000 disponga che, su richiesta dell’interessato, gli enti locali (Comuni d’intesa alle ASL) devono garantire la realizzazione di progetti individuali per le persone con disabilità, ovvero percorsi per la piena integrazione nell’ambito famigliare e sociale, nonché percorsi dell’istruzione scolastica o professionali e del lavoro.
Eppure il d.lgs 96/2009 fa riferimento al PEI come parte integrante del progetto individuale, concetto ribadito dall’art.2 comma 2 del d.lgs 66/2017 che ricorda la necessità di non continuare il processo d’inclusione entro le mura della scuola, ma porta a coinvolgere anche gli ambienti extrascolastici. Anche nel recente D.L. 182/2020 si rende esplicito il raccordo tra PEI e progetto individuale, inteso come una presa in carico globale, un documento generale cui devono coerentemente uniformarsi tutti gli altri progetti, da quello riabilitativo, a quello di inserimento sociale, dal durante e dopo di noi, ai sostegni economici passando per i progetti d’inserimento lavorativo.
La nuova Legge delega sulla disabilità ha tra i suoi obiettivi quello di raccordare tutti questi aspetti discontinui e segmentati in una visione unificata del progetto individuale che diviene così un vero progetto di vita personalizzato che dovrà fare uso di una serie di strumenti economici e giuridici da anni presenti all’interno del dibattito sulla disabilità (come la prospettiva biopsicosociale nella valutazione, il budget di progetto, i percorsi personalizzati, il lavoro strumento di autonomia e l’accomodamento ragionevole). Una legge che si spera contrasti la visione socialmente passiva della disabilità, quella basata solo sul modello sanitario-assistenziale, per promuovere invece la cultura dell’accoglienza, quella dei diritti umani all’interno di un progetto di vita che fornisca gli strumenti che permettano di esaudire l’innata aspirazione di ogni essere umano ad autodeterminarsi, alla vita indipendente, alla libera scelta delle famiglie.
Per quanto riguarda i percorsi del lavoro, la legge delega farà certamente riferimento alle nuove linee guida per l’inserimento nel mondo del lavoro dei lavoratori disabili presentate in conferenza stampa dal Ministro del Lavoro e da quello per le Disabilità il 16 marzo 2022. Il collocamento mirato si baserà su una valutazione biopsicosociale della disabilità che deve essere adottata in tutte le fasi del percorso, dall’iscrizione, al collocamento mirato, fino all’inserimento lavorativo della persona con disabilità, incentivando l’utilizzo di metodi di valutazione e di misure che rilevino i punti di forza e non solo le limitazioni. Una volta effettuata la valutazione, si procederà alla redazione dei progetti di inserimento lavorativo. Il profilo di occupabilità della persona con disabilità viene rivisto periodicamente ogni 6 mesi o nel caso si presentino rilevanti mutate condizioni personali, ambientali, relazionali e occupazionali. Concluse le prime due fasi, i servizi di collocamento mirato incroceranno questi dati nella Banca dati del collocamento obbligatorio mirato che raccoglierà tutte le informazioni trasmesse dai datori di lavoro in base alla Legge n. 68/1999 sul collocamento obbligatorio delle persone con disabilità.
Per quanto riguarda l’inserimento lavorativo riteniamo importanti alcune considerazioni.
La difficoltà nel riuscire a rispondere in modo efficace ai diritti d’integrazione delle persone con disabilità, testimoniata da dati assolutamente sconfortanti e dalla condanna dell’Italia da parte della Corte di Giustizia Europea, ha indotto sempre più a delegare all’inserimento il non profit, la cooperazione sociale, perché supplisse a una sempre maggiore latitanza del profit.
- Riteniamo sia urgente una inversione di tendenza: accanto alle occasioni di lavoro per le persone disabili nelle imprese sociali, occorre promuovere maggiormente politiche che favoriscano, attraverso incentivi e sponsorizzazioni, le assunzioni nel profit, spesso le uniche che garantiscono sostenibilità nel medio-lungo tempo, anche attraverso collaborazioni pubblico-privato all’interno del modello di sussidiarietà circolare, cercando nel no-profit le soluzioni maggiormente protette ma nello stesso tempo meno indipendenti, spesso più propriamente indicate per tipologie di disabilità intellettivo-relazionali.
- Riteniamo inoltre che sul versante delle aziende sia sbagliato che le norme consentano di “scegliere”, tra gli aventi diritto al lavoro, le persone con maggiori capacità tra cui gli invalidi per motivi di lavoro ed i soggetti appartenenti alle cosiddette “categorie protette” (profughi italiani, vedove o orfani di deceduti per causa di guerra, lavoro o servizio, vittime di terrorismo, criminalità organizzata o terrorismo) per cui non è facile per i servizi di mediazione al lavoro inserire persone con disabilità, in particolare quando presentano particolari condizioni di bisogno come le disabilità intellettive relazionali. Risulta perciò ragionevole suddividere tra di loro gli aventi diritto delle “categorie protette” dalle disabilità intellettive-relazionali e procedere con inserimenti in modo separato.
- Inoltre è da rivedere la disciplina prevista per i diversi tipi di esonero dall’obbligo a cui le aziende ricorrono anche quando ciò comporta la monetizzazione del mancato adempimento, rendendo più stringenti le condizioni di inserimento lavorativo per la partecipazione a bandi pubblici.
- E’ pur vero che andrebbe aumentato il Fondo per il diritto al lavoro dei disabili (art.13, comma 4 della legge 68/99) visto che è talmente esiguo da non riuscire ad incentivare le aziende nell’assunzione come sarebbe necessario, in particolar modo quando l’efficienza lavorativa di una persona con disabilità non riesce a raggiungere livelli accettabili di produttività, d’altra parte però lo sgravio contributivo a carico del Fondo nazionale è applicato allo stesso modo a tutte le tipologie di disabilità, da quelle fisiche e sensoriali alle più gravi tipologie intellettive relazionali. E questo è un errore, uno spreco di risorse, perché le persone con disabilità fisica o sensoriale, una volta eliminate le barriere dall’ambiente di lavoro, organizzato l’orario e l’adattamento dei processi produttivi e delle postazioni, potrebbero lavorare come ogni altro individuo. È chiaro quindi che se le risorse economiche per l’incentivazione del collocamento mirato fossero impiegate in modo più personalizzato ed indipendente dal livello di invalidità, ma su base ICF, si favorirebbe maggiormente l’integrazione lavorativa delle persone che hanno meno opportunità.
- Non è secondario poi il tema del potenziamento della sorveglianza dell’applicazione delle norme di competenza dell’Ispettorato del Lavoro, attività svolta generalmente in modo molto blando.
- Da segnalare anche come in molti territori si stiano diffondendo strumenti divenuti “alternative al collocamento” in particolare in presenza di disabilità intellettivo-relazionale. È il caso ad esempio dei “tirocini di orientamento, formazione e inserimento/reinserimento” che vengono attivati previa convenzione con enti no-profit accreditati e definizione di un progetto personalizzato e che non dovrebbero durare più di 24 mesi ma possono essere rinnovati indefinitamente con la persona disabile, in perenne tirocinio, a cui viene riconosciuta una cifra simbolica come l’indennità di partecipazione. Se i tirocini rappresentano un’opportunità importante di avvicinamento/accompagnamento al lavoro, questi devono essere limitati al breve periodo, e non diventare un’alternativa costosa e sistematica a carico dell’ente locale per finanziare in realtà attività socializzanti di alleggerimento per le famiglie che purtroppo si ritroveranno non risolto il problema dell’inserimento lavorativo dei figli.
Il Consiglio Direttivo e Genitori aderenti alla Rete SupeRare