Si parla spesso di emergenza educativa, ma un’emergenza deriva da fatti improvvisi, repentini e di breve durata.
Qui invece siamo di fronte a situazioni che si sviluppano da decenni.
Decenni di riforme più o meno epocali, controriforme, applicazioni parziali o sbagliate delle stesse, tutto senza il coinvolgimento degli insegnanti, i quali, nella scuola secondaria, hanno in gran parte dovuto affrontare il disagio di una vita da precari e di una formazione insufficiente, che determina danni sia per gli studenti che per gli insegnanti.
Non è un’emergenza, è un disastro
Già la nascita della scuola media unica nel 1962 incontrò grandi difficoltà, a causa di carenze di risorse e di formazione degli insegnanti, che dovettero affrontare una situazione completamente diversa da quella precedente.
Oggi la formazione iniziale degli insegnanti di scuola secondaria, dopo decisioni altalenanti tra SIIS, TFA, FIT e 24 CFU, non è ancora del tutto definita, visto che dobbiamo ancora vedere applicare il DL 36/2022 art 44. Una formazione nella quale sarebbe bene contemplare non la ripetizione di esami già sostenuti nel corso di laurea, ma piuttosto lo sviluppo di conoscenze e di pratiche laboratoriali in ambito pedagogico e metodologico-didattico, nonché il potenziamento delle competenze relazionali, ottenibili anche attraverso corsi di teatro, di costruzione delle soft skills, della capacità di lavorare in gruppo e di costruire gruppi (team working e team building); senza dimenticare pedagogia e didattica speciale, per evitare che gli allievi con disabilità vengano ignorati dagli insegnanti curricolari.
Una formazione altrettanto solida sarebbe necessaria anche per i dirigenti scolastici, che non possono essere solo esperti di amministrazione, ma devono anche, e soprattutto, avere la capacità di guidare il collegio docenti e gli studenti in virtù di approfondite competenze pedagogiche e relazionali.
Ma tutto questo sembra fantascienza: da confronti con docenti e dirigenti scolastici esperti la sensazione è che la scuola secondaria sia allo sbando: tranne alcune eccellenze in molti casi non c’è guida, mancano valori condivisi, spesso la normativa più semplice non viene rispettata, non sono chiari i criteri di valutazione, i diritti e i doveri degli insegnanti e degli studenti e soprattutto non si riescono a creare comunità di apprendimento, perché non c’è la capacità di lavorare insieme in gruppo e di cooperare per obiettivi comuni.
A tutto ciò si aggiunge il fatto che le classi continuano a essere troppo numerose. Si riduce il numero degli studenti, ma invece di creare classi con un massimo di 20 allievi gli uffici scolastici regionali tendono a ridurre il numero delle classi.
Inadempienze degli insegnanti
In alcuni casi abbiamo insegnanti che vogliono dare debiti a studenti che hanno medie appena inferiori al sei o che attribuiscono un solo voto in un quadrimestre e ritengono di avere assolto il proprio dovere, senza preoccuparsi né di attuare una didattica che consenta agli studenti di apprendere in modo efficace, né di fare un congruo numero di verifiche per dare possibilità di recupero e di valorizzazione di diverse abilità.
Molti sono convinti che per insegnare siano sufficienti le conoscenze derivanti dalla laurea e non si rendono conto che insegnare è uno dei mestieri più difficili, che richiede una formazione specifica ampia e approfondita.
Insegnare non può essere mero esercizio di potere e dispensazione di sapere, ma si fonda su una corretta relazione educativa e sul sapere “come insegnare”.
Inadempienze degli alunni
D’altro lato abbiamo dirigenti scolastici di scuole secondarie di primo grado che chiedono di non dare insufficienze e di non bocciare nessuno. Come se questo garantisse il diritto allo studio, quando in realtà garantisce solo alti tassi di dispersione occulta.
Non sono dell’opinione che bocciare sia una buona scelta, come ho spiegato recentemente in un altro articolo, ma il sei garantito a tutti conduce al disimpegno totale soprattutto gli allievi provenienti da contesti socioculturali deprivati, cresciuti con lo smartphone già nei primi anni di vita, con capacità cognitive ridotte da assenza di stimoli e che passano la maggior parte del loro tempo libero davanti a uno schermo.
In alcune scuole di periferia succede che una quantità consistente di studenti non studia, non si esercita né a casa né a scuola, rifiuta di fare ciò che gli insegnanti chiedono loro sia in termini di compiti che di organizzazione del lavoro a scuola e, nei casi più gravi, arriva ad impedire lo svolgimento delle lezioni e ad insultare o aggredire gli insegnanti, senza subire sanzioni. Oltre ai casi noti alla cronaca ne esistono tanti altri non denunciati e non raccontati.
Da queste scuole molti insegnanti di ruolo scappano, cosicché, dove servirebbero gli insegnanti più esperti, rimangono soprattutto precari che cambiano ogni anno e tutti, esperti o meno, vivono situazioni di stress difficilmente sostenibili a lungo termine, tali da rendere molto meno efficace l’azione didattica e minare la salute mentale di insegnanti e studenti.
L’autoritarismo produce disastri, ma il lassismo è peggio
Come spiega bene Giovanni Morello nella rubrica Scienze per la Scuola è indispensabile un equilibrio tra l’approccio affettivo e quello normativo, altrimenti subentrano situazioni di sofferenza tra gli insegnanti (ricordiamo: la categoria a maggior rischio di burn out) e tra gli studenti.
Una scuola inclusiva sa adottare una didattica in grado di motivare e coinvolgere tutti, ma di fronte alla totale mancanza di impegno sa anche valutare con severità.
Per aiutare gli studenti servono insegnanti con una solida formazione pedagogica, didattica e relazionale, in grado di proporre diversi modi di insegnare, ma anche una scuola che faccia capire loro che ci sono dei doveri e delle conseguenze, nel caso in cui questi doveri non vengano rispettati.
Quando Don Milani e i suoi allievi scrivevano “Lettera ad una professoressa”, non chiedevano certamente una scuola dove i figli dei contadini potessero essere promossi senza imparare niente, anzi erano molto rigorosi dal punto di vista dell’impegno, consapevoli del fatto che acquisire conoscenze, competenze e capacità di pensiero complesso è fondamentale per migliorare la qualità della vita.
Decidere di non dare insufficienze e non bocciare nessuno non è un atteggiamento inclusivo, anzi è un modo per non avere preoccupazioni. L’opposto dell’ “I care” che accoglieva gli studenti di Barbiana.
Gestire situazioni complesse
Una scuola inclusiva sa gestire situazioni complesse, grazie a competenze relazionali e di costruzione di classi cooperative, che consentano agli alunni di vivere proficui e sereni percorsi di apprendimento anche in contesti socioculturali deprivati, ma sa anche dare delle regole e di fronte al bullismo e alla violazione della dignità personale, sa anche sanzionare, possibilmente con forme di giustizia riparativa, molto più utili rispetto agli interventi esclusivamente punitivi.
Decidere di non sanzionare non è un atteggiamento inclusivo, perché bambini e adolescenti lasciati senza regole sono disorientati, non sanno dove possono arrivare e dove devono fermarsi. Succede così che i loro compagni vivano situazioni di sofferenza come vittime lasciate in balia dei bulli o addirittura che per un gioco o per maleducazione si arrivi ad uccidere.
Certamente non aiuta il comportamento di tanti genitori sempre pronti a giustificare qualunque comportamento dei figli e mai a chiedere scusa. Come nel caso del sedicenne che accoltella una professoressa ad Abbiategrasso e l’avvocato segnala che ha ricevuto due note ingiustificate. Come se le note potessero giustificare un’aggressione armata. Note peraltro più che legittime, visto che interrompere le lezioni spegnendo la lavagna elettronica o lanciando bombolette puzzolenti non mi pare possa essere considerato un comportamento accettabile.
Il docente deve potere sanzionare
Se un insegnante non può sanzionare con una nota comportamenti simili non può fare lezione, quindi viene violato il diritto all’istruzione di tutti.
Se i più prepotenti possono fare ciò che vogliono riescono a dimostrare di essere più forti delle istituzioni. Se possono insultare gli insegnanti, senza subire conseguenze, i coetanei possono solo sottomettersi ai bulli e vivere la scuola con sofferenza.
Tutto ciò produce una pessima lezione di educazione civica e un’ottima occasione di promozione della cultura mafiosa.
Quando viene detto “Lo Stato c’è”, di fronte ai soprusi della criminalità organizzata, dobbiamo essere in grado di realizzare queste parole nel vissuto quotidiano, soprattutto con i più giovani, perché è proprio da qui che si può costruire la paura e la sottomissione ai prepotenti o la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche.
La scuola è un’istituzione che deve essere democratica, ma soprattutto deve saper essere una comunità educante, nella quale gli insegnanti sanno dialogare tra loro, con
gli studenti e con le famiglie; sanno progettare insieme e realizzare attività interdisciplinari e riflettere sull’efficacia della loro azione, senza dimenticare che, come spiega John Hattie, possono essere dei “potenti agenti di cambiamento”, ma solo se non si trovano ad agire in condizioni di solitudine.
L’educatore a scuola
Per ottenere il successo scolastico per tutti non serve creare illusioni, regalando voti e giustificando qualunque comportamento, occorre attuare forme di didattica inclusiva ed efficace e agire con autorevolezza e coesione educativa tra gli insegnanti e tra le diverse agenzie educative (come ci spiega anche Daniele Novara).
Inoltre, se gli insegnanti fossero aiutati da figure educative all’interno e all’esterno delle scuole, il lavoro di rete potrebbe probabilmente aiutare molti alunni a rischio di dispersione e di devianza, come dimostrano il progetto Provaci Ancora Sam di Torino e i Maestri di Strada di Napoli.
Non basta lo psicologo a scuola, servono educatori di supporto e non solo per gli alunni con disabilità.