Fino al crepuscolo dell’Ottocento, numerose erano le “compagnie comiche di giro”, il cui ruolo nella diffusione della cultura in Italia fu straordinario, perché, spostandosi da un paese all’altro e da una regione all’altra, portavano sapere attraverso il teatro e dunque anche le grandi idealità politiche, compresi i drammoni romantici, che loro raccoglievano dai libretti dei più noti scrittori europei.
Essendo composte da più nuclei familiari, nella storia del teatro sono meglio note come “Famiglie d’arte”, discendenti “da generazioni di comici, discepoli dei magnifici ‘virtuosi’ del Cinque e del Seicento, sono gli eredi di quella commedia dell’arte che sbalordì il mondo, i pronipoti delle millenarie ‘maschere’ laziali e campane, e dei ‘mimi’ siciliani.
Alla frequente incultura supplivano con l’intuito; all’improvvisazione, con la genialità improvvisatrice. Nati sul palcoscenico, e vissuti dall’infanzia, per dodici ore al giorno, fra proscenio e camerini, non conoscevano di solito altra vita se non quella appresa dai copioni e chiusa nella maniera della scena, né altre facce se non quelle delle truccature tradizionali”.
Inoltre, da ciò che risulta anche da numerose lettere, notevoli erano le difficoltà finanziarie e organizzative che dovevano risolvere, a cui si aggiungevano sia la mancanza di strade per spostarsi, sia l’inadeguatezza dei mezzi di trasporto. Oltre a tali inconvenienti, dovevano affrontare epidemie, come il colera che li poteva bloccava anche per mesi in un posto.
E ancora, vivendo la maggioranza della gente di agricoltura, il tempo per i loro spettacoli non doveva coincidere coi lavori nei campi, mentre l’alto numero di analfabeti limitava ancora di più la presenza di pubblico.
Un’idea delle loro condizioni la forniscono Rosencrantz, nella scena I del II atto dell’Amleto di Shakespeare, e Wilhelm Meister, nel romanzo “Gli anni di apprendistato” di Goethe, seppure su piani diversi.
In ogni caso queste famiglie di artisti dovevano affrontare, nell’Ottocento, altri problemi, a parte la fame e i debiti contratti per lenirla, come le concorrenze sleali delle altre compagnie, le cui problematiche per lo più riguardavano anche le compagnie di “prim’ordine” che, per mantenere il prestigio, dovevano rappresentare, durante la loro permanenza nella piazza, sempre nuove commedie, perfino quindici, e nel volgere anche di un mese. Poi c’era il problema del rimpiazzo di attori con altri attori che venivano scritturati col “dovere di fornirsi di costumi necessari”, mentre le paghe, molto modeste, spesso venivano falcidiate dall’amministratore della compagnia che le tratteneva “per tutte le spese anticipate”.
Le scenografie poi “sono stereotipi pieni di polvere, adattati per ogni evenienza”. E oltre a recitare, gli attori dovevano fare i falegnami, i sarti, gli imbianchini, i meccanici, benchè le incombenze più importanti appartenessero al capocomico che doveva fare quadrare i conti e onorare gli impegni.
Secondo una comune suddivisione, le compagnie di giro erano di due tipi: a complesso e a mattatore.
Comunissima quella a complesso, proponeva un repertorio tradizionale talvolta pure con tagli alle scene e alle parti meno care al gusto del pubblico; più rara e sofisticata quella a “mattatore”, perché basava la sua fortuna sul grande attore che amava procedere per sua superba bravura, stravolgendo il testo perché il personaggio, creato dal drammaturgo, doveva piegarsi all’attore e non viceversa. E allora arbitrii, tagli, aggiunte, manipolazioni e tutto per mettere in mostra le grandi capacità artistiche, interpretative ed evocative del mattatore.
Infatti secondo D’Amico gli attori italiani, a loro volta, si potevano dividere in altre due categorie: “quelli che tendono a considerare il testo dell’autore come un pretesto, come uno spunto da cui ricaveranno un’altra opera, tutta loro personale; e quelli che s’ingegnano di trasmettere allo spettatore, il più fedelmente che possono, quanto l’autore ha voluto”.
Ma sostiene pure che “la maggior parte dei grandi attori in Europa erano italiani. Nella storia del teatro, l’Ottocento si troverà ad avere assai più pagine dedicate ai suoi attori che non ai suoi autori. E più che dei teatri, l’attenzione e la curiosità degli storici sarà fermata sulle Compagnie che in esse vi agirono. La storia del teatro dell’ottocento è sempre più la storia degli attori dell’Ottocento e la prima non può prescindere dalla seconda”.
Dunque, sono stati quei comici girovaghi per l’Italia a rendere grande il nostro teatro, quelle famiglie d’arte, di cui oggi per lo più si è persa memoria, e quel mattatore, figlio d’arte, che come un funambulo temerario riusciva a stare fra terra e cielo, fra l’umano e la sacralità dell’arte nobile del teatro.