Provincialismo? Chissà? Sta di fatto che in ogni parte d’Italia esplode Halloween che è vecchia tradizione celtica, il popolo preesistente ai sassoni, una stirpe di quelle popolazioni germaniche che lentamente dall’est invasero l’Europa, portando fra le altre novità anche il culto dell’albero. Li descrisse Tacito e con il loro aspetto narrò pure le abitudini e i costumi. In altri termini, sembra proprio che sia accaduto il contrario di ciò che occorse ai romani quando conquistarono la Grecia. La piegarono con le armi ma la patria di Omero piegò i conquistatori con la cultura. Le popolazioni assai primitive dei celti e dei germani a quanto pare, dopo avere conquistato l’impero romano, stanno ora espugnando la nostra cultura che con Halloween non ha nulla a che fare, ma nulla di nulla, e nemmeno lontanamente.
Tuttavia fa specie che anche in Sicilia questa stramberia sassone, americanizzata, sia entrata in modo massiccio, facendo dimenticare invece la più intima, struggente, poetica tradizione della “festa” dei morti.
Nella notte tra il primo novembre e il due, in tutta l’isola, era credenza che i morti lasciassero i loro luoghi terragni e bui e visitassero le case dei parenti più prossimi per lasciare ai bambini ciò che le mamme e i papà chiamavano le “cose dei morti”. E non li lasciavano in bella mostra, ma ben nascosti nei punti più impensabili della casa in modo che i bambini li cercassero con tutto l’entusiasmo e la gioia della sorpresa, tipica dell’età. Le “cose dei morti” per lo più erano i prodotti della terra: fichi secchi, mostarde, castagne, noci, formelle di marmellata e anche la pupa di zucchero o la pasta martorana. Col tempo furono sostituiti queste povere cose da giocattoli, anch’essi assai semplici: il cavalluccio, la bambola, la trottola ma anche la cartella per la scuola.
Una tradizione tipica ed esclusiva della Sicilia ma che è andata distrutta, persa tra lo strombettare macabro e incomprensibile di una costumanza straniera, vendicativa, tracciata di sangue e scheletri e tetra come le ombre delle brume nordiche dove gli elfi danzano, attirando fra le loro spire i bambini per sottrarli ai genitori.
Quale tuttavia fosse il significato più recondito della “festa dei morti” del due novembre in Sicilia, lo ha spiegato il Pitrè, considerato che i morti rubavano ai ricchi pasticcieri, fruttivendoli, commercianti, per lasciare regali ai propri cari in vita.
Sciascia diceva che “il cristianesimo consentiva quelle esplosioni propriamente pagane, nel senso più corrente che ha la parola paganesimo; quei riti, quelle feste, quella proiezione e personificazione di materiali e carnali istanze dei miti; quella scelta e designazione dei mitici, ma al tempo stesso protettori”.
In ogni caso aveva funzione ludica, istruttiva poiché si impartiva ai bambini una educazione finalizzata al rispetto dei propri morti e quindi all’esaltazione dell’identità familiare, rompendo pure la soglia della paura col mondo dei morti e coi cimiteri dove tutta la famiglia si recava. Calava dunque, con questa ricorrenza, la soglia di mistero tra i vivi e i defunti. Ai bambini si diceva che i morti vogliono loro bene, non devono aver timore di coloro che gli portano in dono quello che di più bello possono desiderare: giocattoli e dolci. Ma c’è pure, in questa struggente tradizione siciliana, la presenza di quel legame forte con la terra dove il corpo giace ma da dove vengono i frutti e quindi la vita. Un eterno ritorno e un eterno confermarsi della identità familiare.