Ieri, 5 dicembre, è stato presentato a Roma il nuovo “Rapporto Svimez 2023. L’economia e la società del Mezzogiorno“. Ci sono alcuni dati di grande interesse per il mondo della scuola soprattutto nella seconda parte del rapporto “società e cittadinanza”, al capitolo nove, “La filiera dell’istruzione”.
Secondo quanto emerso dai dati, la crescita dell’occupazione italiana nel post-Covid ha interessato i più istruiti: +1,8% tra il 2019 e il 2023 per effetto di un aumento degli occupati diplomati (+3,6%) e laureati (+8,3%) che ha più che compensato la flessione di quelli con al più la licenza media (–6,2%). Nel Mezzogiorno, la crescita è stata del 15,4% per gli occupati in possesso di un titolo di studio terziario (+203 mila occupati). In Italia, più del 75% dei laureati svolge un lavoro qualificato, una quota che scende al 29% per i diplomati. Ma la struttura produttiva nazionale ostacola l’assorbimento di qualifiche più elevate: la percentuale di occupati italiani con elevate competenze è di circa 7 punti inferiore alla media dell’UE a 27 e di 10 e 12 punti rispetto a Germania e Francia.
La laurea assicura redditi decisamente più elevati e il “premio per l’istruzione” cresce con l’età. Nella media dei paesi OCSE, un laureato di 25-34 anni guadagna il 45% in più di un coetaneo diplomato; nella fascia di età 45-54 anni, il premio per la laurea in termini di reddito sale all’86%. In Italia il premio è minore ma comunque consistente, soprattutto al Sud: il differenziale retributivo tra laureati e diplomati è del 41% nel Mezzogiorno e del 37% nel Centro-Nord.
Quanto si investe sulla scuola?
L’investimento in istruzione superiore è di grande importanza per gli individui e la collettività. Eppure la dinamica della spesa pubblica in istruzione a partire dalla crisi finanziaria 2008-2009 si è mossa in direzione contraria: nell’ultimo quinquennio è diminuita nella maggior parte dei paesi dell’Unione europea. In rapporto al PIL, in Italia la spesa in istruzione è rimasta sostanzialmente stabile nell’ultimo decennio intorno al 4,5%, per poi calare nel 2020 al 4,2%. In Italia la spesa per studente nell’istruzione terziaria è al 2020 di circa 12.600 dollari, a fronte di 18.000 dollari nella media OCSE e di 17.600 nella UE; mentre è sostanzialmente in linea per l’istruzione primaria e secondaria.
Un divario negativo, anche se meno consistente, si rileva per la scuola secondaria inferiore (circa 9.800 per l’Italia a fronte di 11.900 per la media OCSE e 12.100 per l’UE) e per la secondaria superiore (circa 11 mila per l’Italia a fronte di 12.300 per la media OCSE e 11.700 per la UE). Maggiore, viceversa, la spesa per studente della scuola primaria in Italia (12.000) a fronte di 10.700 per l’OCSE e 10.300 dollari per l’UE. Non sorprende quindi che il processo di convergenza del nostro Paese si sia interrotto e che ancora oggi l’Italia sia tra i paesi con la popolazione mediamente meno istruita.
Secondo l’OCSE, il ritardo italiano sulla scena internazionale chiama in causa anche un’offerta scarsamente differenziata di percorsi formativi professionalizzanti solo in minima parte compensati dagli Istituti Tecnici Superiori (ITS), pur molto sostenuti nell’ambito del PNRR, e dalle lauree professionalizzanti (LP) ancora in una fase iniziale di sviluppo. Negli ultimi trent’anni l’Italia ha realizzato progressi significativi sul piano della “quantità” di istruzione. In particolare, per la scuola secondaria superiore, il tasso di partecipazione all’istruzione secondaria superiore della fascia di giovani tra
i 14 e i 18 anni è salito dal 78 al 93% tra il 1995 e il 2022.
Gli aspetti più critici riguardano, tuttavia, i due estremi della filiera dell’istruzione: i servizi socio-educativi per l’infanzia e l’istruzione terziaria. I servizi per l’infanzia sono caratterizzati da un’estrema frammentarietà dell’offerta e da profondi divari territoriali sfavorevoli al Mezzogiorno, in termini di dotazione di strutture, pubbliche e private, e di finanziamenti pubblici per il funzionamento dei servizi.
I deficit nella dotazione di infrastrutture e servizi scolastici generano una silenziosa spirale negativa nella scuola, nelle famiglie e nella società. Scuole senza spazi adibiti a mensa o senza palestre riducono la disponibilità di tempo pieno generando effetti negativi diretti e indiretti. Gli effetti diretti afferiscono alle più basse performance degli allievi nei test INVALSI, alla loro più alta propensione alla dispersione scolastica, alla riduzione del tempo dedicato alla pratica sportiva.
Il peggioramento dei risultati si estende negli anni anche alla scuola primaria che sembrava non aver subìto conseguenze negative sull’apprendimento dalla prolungata sospensione della didattica in presenza. Oltre a essere peggiorato per la media degli studenti italiani, il deficit di apprendimento è divenuto ancora più ineguale: l’incremento del deficit è stato infatti particolarmente pronunciato nelle regioni meridionali e per gli studenti provenienti da contesti familiari più svantaggiati.
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Dispersione scolastica, quali dati in Italia?
Sul fronte della dispersione scolastica, gli ultimi anni hanno visto significativi miglioramenti anche in Italia. Gli early leavers from education and training (ELET) da valori vicini al 20% nel 2008 sono passati all’11,5% nel 2022, valore tuttavia ancora lontano dal target di Europa 2020 (10%) e dalla media europea (9,6%). Nel 2022 circa 517 mila giovani, di cui 249 mila nel Mezzogiorno, pur avendo al massimo la licenza media abbandonavano il sistema di istruzione e formazione professionale. Il Mezzogiorno, e soprattutto Campania, Calabria e Sicilia, presentavano tassi di abbandono assai più elevati. Gli early leavers meridionali erano il 15,1% a fronte del 9,4% delle regioni del Centro-Nord. Valori più elevati si registravano nel Mezzogiorno sia per gli uomini (17% a fronte dell’11,7% del Centro-Nord), che per le donne (13,1% a fronte del 6,9% del Centro-Nord).
Tasso di dispersione scolastica ancora alto al Sud: è pari al 22,1% in Sicilia, al 17,6% in Puglia e al 16,4% in Campania. Il target europeo al 2030 è il 9%.
Si è andato ampliando il divario tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno in termini di immatricolati universitari. A partire dalla grande crisi del 2008-2009, gli immatricolati nel Centro-Nord hanno gradualmente superato i livelli dei primi anni Duemila mentre al Sud sono ancora decisamente al di sotto. Il Mezzogiorno è fanalino di coda in Europa per quota di laureati (25,1 al Sud e 21,4 nelle Isole).