Svuotare le GaE, assumendo i 148mila precari, in lista d’attesa anche da 19 anni e con una età media di 41 anni, se per un verso è uno dei punti più qualificanti della “Buona scuola”, per l’altro, dice Gavosto, significa un esborso per lo Stato di 3 miliardi di euro l’anno e anche di più se il Miur sarà costretto alla ricostruzione di carriera.
Inoltre, sottolinea il direttore della Fondazione Agnelli, questa massa di precari è distribuita in maniera non uniforme nel territorio nazionale, con prevalenza al sud, dove però la popolazione scolastica decresce, mentre nessuno ha accertato le capacità di didattiche di questo esercito di prof che godono il diritto all’assunzione. Diritto che però, nonostante sia sacrosanto perché costoro sono stati sfruttati senza ritegno, blocca ulteriori reclutamenti delle giovani generazioni, fermando del tutto il ricambio generazionale, già rallentato dalla Legge Fornero sulle pensioni che forse solo fra 10 anni si esaurirà. Ma non solo. Mentre le cattedre di lettere, lingue, musica e arte rappresentano un quarto del totale, consentendo forse l’ingresso nel 2018 di 5.500 nuovi prof, se però entrano tutti gli abilitati delle GaE in discipline umanistiche, circa 60mila, è “evidente che per almeno un decennio l’ingresso in ruolo di costoro impedirà le nuove assunzioni.
“La morale è chiara”, scrive Gavosto su Italia Oggi. “Anziché decidere diquali insegnanti la nsotra scuola avrà bisogno nei prossimi decenni ed assumere di conseguenza, si è deciso di sanare una situazione socialmente insostenibile, dando il ruolo a tutti gli insegnati precari storici, solvo poi decidere come impiegarli. Se la logica politica è comprensibile, difficilmente il nsotro sistema scolastico ne uscirà migliore e più moderno”.
Questo quanto scrive il direttore della Fondazione Agnelli, che però dimentica di dire che tutta l’operazione di immissione in massa nei ruoli della scuola dei precari parte da lontano e cioè dalla denuncia fatta alla Corte di giustizia europea che, con la sentenza di oggi, già attesa, impone allo Stato italiano di non giocare più con la gente, papà e mamme, ma anche scapoli, e di dare loro la giusta e agognata stabilizzazione.
Più che una scelta di real politik, è parsa invece una decisione forzata, un obbligo di legge sotto le minacce di sanzioni pecuniarie europee ancora più esose.
Questa sentenza però impone due riflessioni: la prima riguarda i detrattori, coloro che soffiano contro l’Unione europea che, agli effetti pratici, si sta dimostrando un baluardo contro i capricci degli stati nazionali, imponendo sanzioni ai trasgressori;
la seconda riguarda invece coloro che hanno gestito l’istruzione nell’ultimo ventennio, i precedenti governi cioè che, vedendo la scuola come impedimento e non come risorsa, hanno favorito il formarsi (la scuola non è l’ufficio di collocamento!) di questo ciclone tempestoso dei precari, blandendoli e umiliandoli, lasciandoli a sé stessi e alla buona sorte. Una ignominia senza esempi in altre parti del mondo, una caratteristica italiana che, dovendosi finalmente concludere, speriamo si chiuda e al più presto, nell’attesa che si capisca una volta per tutti che insegnare è mestiere troppo nobile e delicato per non selezionare (concorsi o abilitazioni post universitari) con rigore chi lo vuole fare, togliendo del tutto qualunque sanatoria.