A sopperire alla scarsa natalità italiana, come è noto, ci stanno pensando gli stranieri che sempre più numerosi frequentano le nostre scuole dove però il più delle volte essi partano svantaggiati, sia per la limitata conoscenza della lingua e sia per quella astrusa problematica relativa alla cultura e all’etnia (compreso il colore della pelle) di cui sono portatori.
Non ci impelaghiamo nel dibattito leghista sugli stranieri, né sulle scandalose prese di posizioni relative al caso della scuola di Pioltello alla quale viene contestata l’autonomia didattica, ma sarebbe opportuno che intorno alla accettazione e al rispetto della reciproca diversità a scuola si aprisse un dibattito sereno e ampio, anche perché è sui banchi che si apprendono le prime nozioni di convivenza, mentre il suo fine principale è proprio educare alla cittadinanza.
E se per un verso ci viene in contro la grande suggestione di Edgar Morin (I sette saperi) sull’insegnamento della “identità terrestre”, dall’altro ci pare opportuno riproporre la discussione avviata anni addietro di dedicare un’ora di insegnamento a settimana al “saper vivere insieme”. Che potrebbe essere una nuova disciplina tra quelle opzionali e che i ragazzi dovrebbero studiare.
E può sembrare una buona idea se il Ministero riuscisse a individuare la figura professionale insieme ai programmi, anche se già la scuola dispone di sperimentati strumenti educativi.
Al tempo, qualche decennio fa, fu Tuttoscuola a parlarne a lungo della disciplina del “saper vivere insieme”, spiegando di considerarla come materia opzionale, al quarto dei grandi obiettivi formativi indicati dall’UNESCO e per integrare i tre tradizionali “saperi”: sapere, saper fare, saper essere, aggiornandoli alla luce della crescente complessità multietnica e multiculturale delle odierne società ad elevato sviluppo economico.
Quando infatti si è trattato di capire le più sconvolgenti evoluzioni delle società, come le tragedie del 900, e i nuovi fermenti culturali, la scuola ha sempre trovato al suo interno gli elementi per farlo, allo stesso modo, in era di globalizzazione, l’obiettivo principale dovrebbe consistere, non già nella “istigazione al dominio” (guerre e presunte superiorità culturali) o nella integrazione forzata, quanto nella capacità di comprensione e soprattutto di accettazione della diversità che è ricchezza, così come avviene in natura, dove la biodiversità genera paradisi.
E a scuola questi concetti per lo più sono presenti e in un modo o nell’altro sono oggetto di discussione anche se sonnecchia ancora, e non se ne capisce il motivo, una vera educazione alla lettura, ai libri, all’arte che poi sono gli elementi fondanti queste idealità.
La bellezza salverà il mondo, è spesso detto citando i Dostoevskij, mentre Friedrich Schiller vagheggiava uno stato estetico, in grado di migliorare l’uomo e renderlo felice.
Si capisce l’utopia, ma la base forte rimane, perché nell’affinare il gusto estetico si affina l’amore per la vita e per tutto ciò che è stato ritenuto degno di esistenza sulla terra. E da qui forse bisognerebbe ripartire per rifondare un dialogo che riesca a rendere complementare il sud e il nord, l’est e l’ovest della terra.