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Lo studio questo sconosciuto. Saggio di Perretti sullo studiare e i suoi risvolti

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Studiare, a cosa serve dopo la morte? È meglio non studiare e godere la vita. Un vecchio adagio goliardico che vorrebbe dribblare gli studi accademici per darsi alla pazza gioia. “Oh Fortuna, imperatrice del mondo”, diremmo con Carl Orff dei “Carmina Burana”, se oggidì una frase simile nelle scuole italiane avesse ancora un senso, lasciando per i fatti suoi volontà e impegno, visto fra l’altro il tracollo di tante certezze e soprattutto il fiorire di una politica scolastica tesa a stringere rapporti sempre più intimi e familiari con le industrie e le aziende. Perché fra loro si capiscono, in uno scambio di manodopera specializzata, contro qualche prebenda, cosicché l’istruzione diventi l’ancella del capitalismo trionfante. 

Questo per lo più il senso del libro di Pierpaolo Perretti, “Lo Studio. Senso, sconcerto e bellezza”, Rubbetino editore, 16,00 Euro, che fra l’altro viene sintetizzato meglio sulla quarta di copertina, scrivendo: “Studiare non serve tanto a lavorare, quanto a vivere, e a vivere nel migliore modo possibile: amando”.

Riscoprire il senso antico dello studio, quello  che i greci gli attribuivano e dunque l’amore per il classico Otium che per i romani era appunto dedicarsi alle arti liberali, come appunto lo studio. Ma è questa cultura? O è quell’altra per non farsi fregare dal salumiere o dal fruttivendolo?  

Ecco dunque l’autore, attraverso 12 capitoli ben articolati, illustrare la sua idea di istruzione, partendo appunto dal concetto del vero “maestro”, del “rabbi”, che si mette a capo della cordata per portare il resto degli scalatori sulla vetta della sapienza, quella che è permesso raggiungere sulla base delle condizioni sia della montagna sia delle influenze del tempo. E questi sacrifici in vista di traguardi, quali la gioia, il perfezionarsi della parola, la formazione della cultura e l’affinamento della sensibilità e del pensiero critico, compresa la capacità di godere del bello e la disponibilità al bello. Non imparare il pensiero ma imparare a pensare.

L’autore allora cerca di rispondere al valore più ampio che la ricerca della conoscenza implica e dunque della ricerca della conoscenza al di là dell’obbligo e dunque anche al di là della frequenza burocratica, mentre si affaccia l’esigenza di una formazione orientata non al lavoro, riscattando così dall’oblio a cui le abbiamo consegnate le motivazioni più profonde dello studio, a partire dall’amore e dal sentimento di meraviglia che tanto lo studente quanto lo studioso sono chiamati a provare.

“Il saggio scommette così sul fatto che lo studio abbia un valore per la quotidianità della persona e che faccia bene alla vita, contribuendo a dotarla di senso e consapevolezza. Per tutti gli studenti alla ricerca di una strada, per gli studiosi che la stanno percorrendo, per chi nutre ancora la semplice curiosità di leggere e capire”.