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Gli adolescenti non ascoltano gli adulti? Secondo una neuroscienziata non è vero, ecco cosa devono fare genitori e docenti

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Membro ricercatore della Royal Society University e docente di Neuroscienze cognitive presso lo University College di Londra, Sarah-Jayne Blakemore ‘frequenta’ da decenni il cervello degli adolescenti, e ne conosce bene meccanismi e funzionamento, descritti qualche anno fa nel saggio “Inventare se stessi. Cosa succede nel cervello degli adolescenti” edito in Italia da Bollati Boringhieri.

Intervistata dal quotidiano L’Avvenire, in occasione di una sua lectio magistralis all’Università delle Svizzera italiana a Lugano, la neuroscienziata definisce l’adolescenza come un periodo unico di sviluppo biologico, psicologico e sociale. Contrariamente a quanto si pensava qualche decennio fa – che il cervello, cioè, smettesse di svilupparsi nel corso dell’infanzia –  nuovi e numerosi studi hanno permesso di scoprire che non è così: lo sviluppo continua fino ai 20-25 anni. Sono molte le funzionalità che si evolvono, da quelle cognitive a quelle che riguardano il comportamento sociale. È la fase in cui il nostro senso d’identità si trasforma più profondamente.

L’adolescenza – continua Blakemore – è un periodo in cui il cervello è straordinariamente plastico, in continua trasformazione, e l’influsso dell’ambiente e delle relazioni sociali è molto rilevante. Un aspetto fondamentale è la predisposizione al rischio. Per un adolescente è cruciale essere accettati dal gruppo e per ottenere questo obiettivo è disposto a correre rischi esponendosi a comportamenti pericolosi o dannosi per la salute (ad esempio fumo e alcol). Dai nostri studi risulta evidente l’influenza sociale: gli adolescenti sono più disposti a correre rischi quando si trovano in compagnia degli amici.

Questo condizionamento sociale, tuttavia, non genera soltanto effetti negativi. Lo stesso meccanismo, infatti, vale anche per i comportamenti positivi, come il desiderio di fare volontariato e aiutare gli altri. Gli adolescenti sono estremamente sensibili all’influenza dei loro pari in questo campo. Ed è una caratteristica che può avere effetti benefici nelle campagne di salute pubblica.

È stato fatto – continua la docente – uno  studio sull’efficacia degli interventi contro il bullismo in un gruppo di scuole statunitensi: in metà degli istituti gli incontri erano tenuti da insegnanti, secondo un metodo tradizionale, mentre nell’altra erano stati i ragazzi dagli 11 ai 15 anni, opportunamente formati, a parlare con i loro coetanei. In questo secondo gruppo di scuole c’è stata una diminuzione di episodi di cyberbullismo del 25% più alta.

E gli adulti, in tutto questo? Come possono, genitori e professori, instaurare una relazione sana con gli adolescenti?

Gli adulti – conclude la neuroscienziata –  hanno un ruolo fondamentale: non è vero che gli adolescenti non li ascoltano, gli adulti fungono da modelli di comportamento e da supporto. Le ricerche che stiamo svolgendo possono aiutare gli adulti a comprendere meglio il comportamento adolescenziale anche quando sembra irrazionale o irresponsabile. Si tratta di atteggiamenti che hanno una fondamentale motivazione di adattamento, saperlo può renderci più facile accettarli.