Gentile redazione,
le lettere che pubblicate dimostrano che la Tecnica della Scuola crede fermamente nella libertà d’espressione, e sappiamo – ahinoi – che ciò non è scontato, pur essendo un valore costituzionale.
Da alcune lettere risulta infatti evidente che da parte vostra non vi è alcun intervento censorio sulle lettere stesse.
Pertanto mi prendo la libertà di rispondere a un intervento intitolato «La scuola è in declino e non tornerà più alle antiche glorie», perché da insegnante di scuola primaria non accetto (e infatti mi indigno in sostanza tutti i giorni) che si parli di scuola senza avere competenze ed esperienze pedagogiche.
Rispondo punto per punto alla lettera.
1) Colui che l’ha scritta forse non parla con una pluralità di insegnanti, perché invero tra di noi ve ne sono molti che desiderano la meritrocazia tra i docenti, e che ritengono che uno dei problemi della scuola sia proprio l’incompetenza – pedagogica e didattica – di vari colleghi.
Ma se lo Stato non investe sulla scuola (basti pensare che quasi la metà dei docenti sono precari), diventa impossibile parlare di meritocrazia senza affrontare il problema fondamentale: questo Paese – da almeno una ventina d’anni – ha smesso di credere nel ruolo di sviluppo sociale ed economico della scuola pubblica.
Per fare un esempio, chi si intende del mestiere sa quanto la compresenza in classe di due insegnanti sia importante, perché l’apprendimento degli allievi è agevolato dal confronto tra gli adulti che lavorano per loro. Chi è competente in materia, sa che l’apprendimento si costruisce insieme: tra gli allievi, e tra gli insegnanti per gli allievi.
Ebbene, le colleghe di lunga esperienza mi dicono che dal taglio delle compresenze deciso con la riforma Gelmini, la scuola primaria è cambiata, e non in meglio.
Prima affrontiamo questo problema di fondo (il taglio di risorse), e poi parliamo di meritocrazia tra gli insegnanti: per dare spazio agli insegnanti meritevoli servono soldi soldi soldi!
2) «Trattamento tendenzialmente egualitario degli studenti».
Anzitutto, di quali studenti si sta parlando, visto che la scuola dell’obbligo inizia a 5-6 anni? Certe generalizzazioni non hanno senso.
E comunque, da educatore professionale – una manciata di anni fa – lavorai in una terza media e in quella classe uno studente fu bocciato, così come un altro in una prima superiore in cui collaborai: e allora, di che cosa si sta parlando? Da insegnante ritengo casomai opportuno interrogarsi sui motivi e sul senso di una scuola dell’obbligo che boccia.
Da maestro, che il cielo mi possa fulminare se in sei anni di pagelle io abbia assistito a valutazioni in cui «tutti gli studenti siano ugualmente bravi, capaci e meritevoli».
Allora mi sorge un dubbio: non è che tanti, sulla scuola (così come per tutto il resto), pensano – e magari scrivono pure – per sentito dire, ragionando per luoghi comuni, non avendo esperienza su ciò di cui scrivono, o forse avendone ma non prendendosi la fatica di argomentare ciò su cui generalizzano? Eppure gli studenti della scuola di «tanto tempo fa» – cioè presumibilmente di coloro che oggi scrivono lettere – dovrebbero essere «mooolto più preparati di quelli di oggigiorno», e mica ragionare per luoghi comuni. Perché altrimenti, ricordiamocelo: a farsi trasportare dagli stereotipi, va a finire che tutti gli italiani sono mafiosi.
3) La «disciplina» è il punto più spassoso, senza dubbio sostenuto dagli articoli di intellettuali come Ernesto Galli della Loggia (che infatti non è un pedagogista).
A parte che nella lettera non si chiarisce quali siano le «regole rigorose» da far applicare (ancora, si generalizza), ma se – come sembra – la scuola di «tanto tempo fa» con «regole rigorose» era quella dell’epoca di un mio famigliare settantenne, beh questo signore mi racconta che da bambino andava a scuola con sgomento, perché c’era un maestro che la disciplina sugli scolari l’aveva nelle mani – benchè l’allora bambino mai ne provò la durezza, avendo la fortuna di comprendere subito quanto spiegato, perché intelligente – e che invece fu tanto felice quando per un certo periodo di assenza del maestro ci fu un supplente comprensivo e sorridente.
Questo mio famigliare ottenne borse di studio lungo tutta la sua carriera scolastica, ma non certo perché a scuola c’era «disciplina», che se non meglio argomentata non si capisce che cosa sia!
Quel bambino e ragazzo di allora, così come quelli di oggi, andò avanti anzitutto perché era molto intelligente (e la scuola pubblica non si può affidare alla genetica!), e al contempo perché casomai incontrò nel percorso scolastico insegnanti autorevoli: l’autorevolezza non è sinonimo di disciplina non meglio definita.
Non permettetevi di discettare sulla scuola utilizzando con superficialità certi vocaboli! Ci sono ancora adulti per cui la disciplina è quella del bastone che piomba su David Copperfield nei primi capitoli del romanzo! O si spiega bene ciò che si intende dire, o si è competenti su ciò che si scrive, o perlomeno si avanza qualche dubbio, o altrimenti su ciò che riguarda la vita degli altri, la vita di bambini e ragazzi soprattutto, si taccia!
Parlando delle persone con cui lavoro ogni giorno, i bambini la disciplina se la danno da soli, se dinanzi a sé hanno adulti che li comprendono, li educano e li motivano a desiderare.
A scuola disciplina significa costanza, impegno, confronto, precisione, cooperazione, metodo di studio. Sono percorsi di apprendimento profondi, vanno introiettati dagli allievi nel corso di anni: bastano «regole rigorose» e «disciplina» non meglio identificate?
Nella mia classe c’è una bambina “ribelle”, arrivata da pochi mesi in Italia. Con lei non si ottiene quasi nulla alzando la voce: appena si distoglie l’attenzione da lei, trova una via di fuga dall’esercizio proposto, se quell’esercizio non le va. È scaltra, la birbante.
Quale disciplina dovrebbe applicare l’insegnante?
Confesso una cosa, a chi non fa l’insegnante, o a chi lo fa senza passione: la meraviglia di questa professione è che a lavorare con i bambini e i ragazzi, un insegnante applica la disciplina prima di tutto su se stesso. Ed è un imparare continuo, uno sbagliare e dirsi: «La prossima volta saprò fare meglio».
La disciplina, a scuola, è anzitutto «senso critico»: ciò che la scuola dovrebbe insegnare secondo le Indicazioni Nazionali.
Senso critico significa porsi domande: questa è la disciplina che un insegnante vive in primis su di se, per poi viverla insieme agli allievi (o almeno, ci si prova).
E sapete, a pormi domande e a confrontarmi con le colleghe, che cosa ho imparato sulla bambina “ribelle” e intelligente? A centellinare il tono perentorio (i famosi «no» che servono ai bambini) e ad aiutarla con discrezione e soprattutto con il sorriso: quando si riesce a far ridere quella bambina, allora si mette a scrivere che è un piacere vederla.
E sono certo di una cosa, benché con gli adolescenti non abbia lavorato a lungo (ma le basi della pedagogia valgono a qualsiasi età): anche coi ragazzi serve di più una risata che una «disciplina» non definita, e perciò pericolosa, perché una certa disciplina fu quella che mandò – e ancora manda – milioni di giovani a morire ammazzati in guerra.
Che viva la disciplina della passione e della ragione, della competenza e del sorriso (anche verso chi si lascia andare ai luoghi comuni).
Daniele Ferro, maestro di scuola primaria.