Gli economisti di tutto il mondo non si fermano e continuano a snocciolare previsioni, più o meno catastrofiche.
Previsioni, tra l’altro, figlie del risultato di un referendum che sta creando fratture importanti.
Le conseguenze della Brexit inevitabilmente abbracceranno tanto l’Europa quanto il Regno Unito, che non è mai stato così poco “unito” come in questi giorni.
Le ripercussioni sul piano economico sono quelle che incutono più spavento, dal timore del rialzo dei tassi della Bank of England e quindi di quelli in Europa, alle conseguenze per il mercato dei mutui e dei prestiti. Senza dimenticare il crollo della sterlina che già nell’ultimo anno aveva subito un ribasso del 12% sull’euro.
Ma sopra tutte domina la paura del pluri citato effetto domino: sono già molti i paesi, in testa Francia e Olanda, in cui i partiti più conservatori guardano con ammirazione all’esempio della Gran Bretagna. Ciò che sfugge a costoro, come a chi ha esultato per la vittoria del “leave” al referendum del 23 giugno, è l’inquietante sensazione che i popoli abbiano memoria breve e che imparare dalla storia, dalla sua naturale evoluzione, sia pressoché impossibile.
La Brexit determinerà cambiamenti di portata epocale, soprattutto dal punto di vista socio antropologico.
Beppe Severgnini sulle pagine del Corriere ha parlato di “sgambetto a una generazione“, perché il “leave” ha spopolato soprattutto tra le persone over 50, a discapito delle generazioni più giovani che volevano continuare a far parte del progetto Europa.
Che l’Ue sia un disastro su numerosi fronti è innegabile.
È una realtà geografica a tutti gli effetti alla quale è stata data una moneta unica senza però aver prima la premura di fornirle una vera Costituzione – il vecchio Trattato del 2001 poi abbandonato nel 2009 era un documento debole che di fatto non sanciva la nascita di una sovranità come era stato nel caso degli Usa – e soprattutto senza dare a chi lo abitava un sentimento di appartenenza ad essa.
Mancano, infatti, tanto una Costituzione europea necessaria ad una cornice istituzionale che possa far funzionare davvero un governo europeo, quanto una conformità unica in grado di comprendere tutte le diverse realtà culturali e linguistiche dei vari membri.
Inoltre, non si è lavorato in modo concreto per mantenere un equilibrio tra i paesi facenti parte dell’Unione affinché si evitasse la sgradevole sensazione di essere tutti sotto la guida di una potenza egemone, quella economicamente più forte.
Eppure, ad oggi, scelte di stampo nazionalistica come questa, risultano anacronistiche poiché trascendono la dimensione storica e sono in pericoloso contrasto con il progresso.
Basti pensare alle conseguenze sui mercati: la maggior parte delle leggi e delle norme che dovrebbero regolare l’Unione e che fanno parte del suo aggrovigliato apparato burocratico, ha come scopo quello di facilitare e agevolare gli affari e gli scambi commerciali, ma anche la libera circolazione dei cittadini residenti nella comunità. I libri di storia ci hanno raccontato e continuano a raccontare la situazione dell’Italia pre unitaria, frammentata in tanti regni e tormentata dall’incubo delle imposte doganali.
La realtà dei fatti è che l’Europa è a tutti gli effetti figlia della globalizzazione.
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Chi reagisce contro di essa, come è accaduto in questi giorni nel Regno Unito, non ha ancora una chiara visione della situazione globale, e ottusamente percepisce come pericolo tutto ciò che travalica i confini nazionali, tutto ciò che giunge al di fuori di essi. Un chiaro esempio sta nella concezione di immigrazione, percepita dai sostenitori del “leave” come una minaccia. Al contrario di quanto possono concepire costoro invece l’immigrazione non è altro che un sintomo dell’ampio respiro di un’epoca e di un mondo che, almeno in teoria, avrebbe tutti gli elementi necessari per non conoscere più confini.
C’è poi una cerchia piuttosto ristretta che, come ha spiegato l’ex primo ministro Tony Blair al “Sunday Times”, ha votato l’uscita dal vecchio continente perché vede in esso proprio un ostacolo alle possibilità offerte dalla globalizzazione.
L’uscita, in tal senso, è stata una mossa politica per mettere in atto scelte sociali ed economiche radicalmente diverse da quelle pianificate dall’Ue. Un’ennesima dimostrazione del proposito britannico di allontanarsi volontariamente dalle vie indicate dall’Unione europea per disegnarne e intraprenderne di nuove, tutte pensate ad hoc.
Era stato già così al tempo della moneta europea, quando il Regno Unito aveva scelto di non aderire all’euro ma di far parte comunque del mercato unico. Secondo Tony Blair le motivazioni della vittoria del “leave” sono da ricercare proprio nella volontà di “tirarci fuori dal sistema di governo europeo per diventare un paese globale che si astiene da comportamenti invalsi”.
Ma aggiunge: “Chi la pensa così appartiene a quel gruppo di persone contrarie alla carta sociale dei diritti fondamentali per il lavoro che si è opposta anche al salario minimo”.
In questi due sensi dunque la Brexit è stata ed è una pericolosa scelta nazionale che va ad alimentare l’illusione di poter fare a meno dell’Unione europea, di potersi sottrarre al progresso e a quel processo di globalizzazione che è inevitabile e inarrestabile con tutti i suoi pro e i suoi contro.
A tal proposito perciò la scelta più matura e intelligente, in linea con l’epoca in cui ci troviamo a vivere ma soprattutto con il peso della storia che ogni cultura dovrebbe sentire sulle proprie spalle, sarebbe quella di lavorare e cooperare per rendere migliore il suddetto processo. E anche per scongiurare il pericolo di errori socio-politici e culturali che, nel XXI secolo, non possiamo più permetterci.
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