Gli studenti non sanno più scrivere, leggere e parlare l’Italiano? Che fare allora? Se si considera che 200 ore alle Superiori sono state sottratte per l’alternanza scuola-lavoro e che altre ore si perdono perse per il giochino del Clil, forse se ne capiscono alcuni dei tanti motivi, mentre meno risorse, più alunni per classe, meno insegnanti, meno ore di lezione contribuiscono a fare della nostra scuola la Cenerentola d’Europa. E in attesa dei decreti attuativi della L. 107, la “Buona Scuola” di Renzi, con cui si preparano altri tagli agli insegnamenti di base, tra cui ancora quello dell’Italiano, si capisce il motivo della petizione al Presidente della Repubblica che è stata lanciata e che noi riportiamo all’attenzione dei nostri lettori.
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Con una recentissima sentenza (n. 42/2017), la Corte costituzionale ha ribadito la centralità costituzionalmente necessaria della lingua italiana, quale elemento fondamentale di identità individuale e collettiva, nonché elemento costitutivo della storia e dell’identità nazionale.
Il giudizio dinanzi alla Corte – traendo origine dalle delibere del dicembre 2011, con le quali il Politecnico di Milano, imponeva l’inglese come “lingua ufficiale” nelle lauree magistrali e nelle Scuole di dottorato, escludendo, dunque, l’italiano – aveva ad oggetto l’art. 2, c. 2, lettera l), della legge 240/2010, che consente, per il miglior perseguimento dell’internazionalizzazione, l’attivazione di corsi “anche” in lingua straniera.
Ora, dice la Corte, “le legittime finalità dell’internazionalizzazione non possono ridurre la lingua italiana, all’interno dell’università italiana, a una posizione marginale e subordinata, obliterando quella funzione, che le è propria di vettore della storia e dell’identità della comunità nazionale, nonché il suo essere, di per sé, patrimonio culturale da preservare e valorizzare”.
Non solo. L’esclusività dell’inglese, “imporrebbe, quale presupposto per l’accesso ai corsi, la conoscenza di una lingua diversa dall’italiano, così impedendo, in assenza di adeguati supporti formativi, a coloro che, pur capaci e meritevoli, non la conoscano affatto, di raggiungere «i gradi più alti degli studi», se non al costo, tanto in termini di scelte per la propria formazione e il proprio futuro quanto in termini economici di optare per altri corsi universitari o, addirittura, per altri atenei”.
Detta imposizione potrebbe, inoltre, “essere lesiva della libertà di insegnamento, poiché, per un verso, verrebbe a incidere significativamente sulle modalità con cui il docente è tenuto a svolgere la propria attività, sottraendogli la scelta sul come comunicare con gli studenti, indipendentemente dalla dimestichezza ch’egli stesso abbia con la lingua straniera; per un altro, discriminerebbe il docente all’atto del conferimento degli insegnamenti, venendo questi necessariamente attribuiti in base a una competenza – la conoscenza della lingua straniera – che nulla ha a che vedere con quelle verificate in sede di reclutamento e con il sapere specifico che dev’essere trasmesso ai discenti”.
Molto saggiamente, dunque, la Corte, consapevole dell’importanza di una lingua veicolo della comunicazione scientifica e tecnologica, non ha dichiarato l’illegittimità della disposizione scrutinata, ma ne ha fermamente censurato l’interpretazione aberrante, perché della legge “è ben possibile dare una lettura costituzionalmente orientata, tale da contemperare le esigenze sottese all’internazionalizzazione (…) con i principi di cui agli artt. 3, 6, 33 e 34 Cost.”, sicché i corsi di laurea interamente in lingua straniera potranno affiancare, non sostituire, quelli in italiano, garantendo sempre un percorso formativo nella nostra lingua.
Insomma, l’affermazione dell’italiano come «unica lingua ufficiale» del sistema costituzionale «non ha evidentemente solo una funzione formale, ma funge da criterio interpretativo generale», teso a evitare che altre lingue «possano essere intese come alternative alla lingua italiana» o comunque tali da porre quest’ultima «in posizione marginale» (Corte cost. n. 159/2009).
D’altra parte, secondo la Corte, proprio l’esigenza dell’internazionalizzazione – correttamente intesa – fa sì che il primato della lingua italiana risulti oggi “costituzionalmente indefettibile” non certo quale “difesa di un retaggio del passato, inidonea a cogliere i mutamenti della modernità” ma in quanto “garanzia di salvaguardia e di valorizzazione dell’italiano come bene culturale in sé”, elemento di una “biodiversità linguistica”, che costituisce espressione della specificità del modello europeo di società, nel contesto di una politica che concilia democrazia, pluralismo culturale e integrazione sovranazionale degli ordinamenti.
Il punto è che la sentenza non chiude la vicenda, che dovrà tornare di fronte al Consiglio di Stato mentre è ormai improcrastinabile il recepimento dei principi enucleati dalla Corte mediante atti di indirizzo generali, rispettosi dell’autonomia universitaria e, insieme, del primato della lingua ufficiale della Repubblica, anche al fine di evitare ulteriori violazioni degli stessi principi, con gli inevitabili riflessi sulla programmazione universitaria.
Più ancora, è urgente – e i tempi sembrano maturi – per mettere in campo tutte le azioni (legislative, di ricerca, di formazione, di digitalizzazione dell’immenso patrimonio librario e archivistico italiano, etc.) – atte a tutelare, promuovere e valorizzare la nostra lingua, in Italia e all’estero, a iniziare dall’esplicito riconoscimento in Costituzione dell’“italiano come fondamento culturale della Repubblica e propria lingua ufficiale”.
È tempo, insomma, di dar vita a una nuova, diversa e attiva politica linguistica italiana.