Tra pochi giorni uscirà in America «iGen», saggio della psicologa Jean Twenge, docente a San Diego University, che, mettendo confronto i dati degli ultimi 40 anni, ha scoperto che i teenagers Usa sono più depressi e meno inseriti a scuola o al lavoro, dei loro genitori e nonni.
La recensione del libro si trova su La Stampa.
Passano meno tempo con gli amici, nello studio, nello sport, perfino pomiciare e far l’amore sono trascurati. Non si prende la patente, non si va a ballare. I suicidi aumentano, preceduti dall’uso di droghe, l’insicurezza sociale genera bullismo aggressivo e vittimismo paralizzante.
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Vittime numerose tra le ragazze, vulnerabili più dei coetanei maschi.
La colpa di questa epidemia di solitudine, frustrazione e nevrosi nella generazione 13-19 anni sarebbe dei cellulari e tablet, soprattutto iPhone, che assorbono cervello, anima e cuore dei nostri ragazzi, lasciandoli per ore, gusci vuoti a letto.
L’inchiesta di Jean Twenge conferma il trend, ricchi e poveri, cittadini e figli della campagna, i ragazzi iGen trascurano famiglia, amici, fidanzatini, chiesa, volontariato, smarriti nell’ossessiva solitudine del cellulare.
I più sfortunati si perdono nella malattia mentale e nel suicidio.
Per uscirne, secondo Twenge, ci vorrebbe solo un perentorio «Posate quei telefoni!», ordine da impartire a scuola, in famiglia, ovunque i ragazzini passino tempo.
Twenge vede salire dai suoi dati le correlazioni adolescenti-infelicità-solitudine-abusi di sostanze-suicidio-tempo speso sui cellulari e, in automatico, addossa la colpa agli smartphone.
Ma siamo sicuri che, se li eliminassimo, i ragazzi di botto ritroverebbero sorriso e entusiasmo? Siamo certi che siano depressi perché vivono al telefono, o invece vivono al telefono perché il nostro tempo non ha per loro idee, valore, speranze e dunque sono già depressi?