“Riscoprire i classici”. Se ne parla da anni, anzi da decenni. Negli ultimi tempi gli studiosi di letteratura hanno sollevato sempre più la questione. Ora escono alla scoperto. Come il professor Claudio Scarpati, ordinario di letteratura italiana presso l’Università Cattolica di Milano: in un articolo pubblicato su “Vita e Pensiero”, rivista dell’ateneo del Sacro Cuore fondato da padre Agostino Gemelli, il docente universitario ripercorre la crisi di un filone di autori e di libri che sembra non avere fine. “L’eclisse dei classici – scrive Scarpati – ebbe inizio negli anni Settanta, quando si ritenne che essi fossero caduti in una fatale obsolescenza e che fosse inutile dedicare tempo ai documenti del passato e che si dovesse porre gli studenti a contatto con testi e problemi che portassero il segno del ‘qui ed ora’: sociologia, antropologia culturale, scienze umane. Alcuni libri di testo tentarono allora l’assemblaggio di materiali eterogenei e gli insegnanti fecero lo sforzo immane di essere all’altezza dei libri che avevano scelto; ma la rottura dei confini tra i compartimenti del sapere condusse in direzione del generico, anche perchè le cognizioni di base degli allievi non erano in grado di permettere loro itinerari mentali così ardui”.
Scarpati ricorda come la cultura di quegli anni fosse “orientata ad affermare il primato del politico, andava suggerendo che ogni considerazione dei secoli passati era inutile viaggio, essendo determinante il progetto della trasformazione sociale, operata nel presente e proiettata nel futuro”. Negli anni Novanta lo sfondo non cambia: la cultura era concetrata su temi come sviluppo, impresa e innovazione; continuava a non esserci spazio per letture e autori tradizionali. Ad un certo punto, probabilmente, si toccò il fondo: “Per una via o per l’altra sembrò – afferma Scarpati – che si dovesse assistere all’irrimediabile eclisse dei classici”. Diversi insegnanti, tuttavia, non si unirono al “coro” e continuarono a difendere un minimo di determinazione disciplinare. Sapevano bene che non bisogna mai piegarsi alle innovazioni. “La coscienza storica – osserva il professore di letteratura – è una coscienza prospettica che permette di collocarci, fornisce basi da cui iniziare di nuovo i discorsi, distinguendo le vie aperte da quelle sbarrate. La discesa nei domini delle lettere, della filosofia, delle arti ricostruisce intorno a noi i mondi che non abbiamo vissuto, che sarebbero perduti per sempre se non venissero di nuovo acquisiti per mezzo della storia”.
E poi le innovazioni, si sa, non nascano dal nulla: si portano sempre dietro un retroterra culturale e di conoscenze non indifferente. Ecco perché la vera innovazione “sarebbe quella in grado di comparare testi e immagini, letteratura e architettura e pittura e statuaria, con una iniziativa che gli insegnanti di Lettere si dovrebbero assumere, ora che tante immagini sorgono dagli archivi elettronici, parzialmente rimediando alla sciagurata esiguità dell’insegnamento artistico nella scuola di questo nostro Paese che è stato definito come museo diffuso”. Attenzione però a non fare pericolose cernite settoriali: la riscoperta non ha confini. “E’ interessante notare che, mentre siamo riluttanti ad aprire i libri antichi che richiedono pazienza di lettura e di decifrazione, siamo disposti come turisti a percorrere con avido interesse le sale del British Museum o del Louvre, a seguire programmi di archeologia e di divulgazione storica, poiché crediamo che le testimonianze iconografiche ci parlino con più immediato linguaggio, con più diretta suggestione”. Invece “l’eredità culturale di cui siamo beneficiari – conclude il docente – è insieme letteraria e artistica. Di quella artistica siamo tutti consapevoli, mentre l’eredità letteraria ci sembra assai meno rilevante”.