Il ministro Minniti, in un’intervista rilasciata al quotidiano La Stampa il giorno 9 marzo 2018, spiega la sconfitta del PD con le seguenti parole: «C’è stata una rottura sentimentale col Paese. Mentre eravamo impegnati in un processo di ricostruzione, non abbiamo trasmesso il senso di un Paese che doveva cambiare. Tutto questo ha lasciato vuoto il campo del cambiamento»
Da queste affermazioni si evince che l’analisi continua ad essere quella fatta ai tempi della lezioncina di Renzi agli insegnanti, che a suo parere non avevano capito il vero senso del cambiamento e della riforma della cosiddetta “buona scuola”.
Davanti alle telecamere con una lavagna ha cercato di spiegare a chi invece aveva già capito benissimo, ma semplicemente non condivideva; senza rendersi conto che quella lezione, e quell’attribuire agli insegnanti l’incapacità di comprendere, risultava offensiva ed era quindi un grave errore, quello sì, di comunicazione, che si aggiungeva agli errori contenuti nella sua riforma.
Marco Minniti prosegue citando Gramsci: «un partito è un programma, è un progetto ed è anche passione organizzata.» Sostenendo: «Forse ci è mancata passione organizzata».
Il problema è che la passione organizzata è frutto di un programma e di un progetto in grado di appassionare. Sempre pensando alla riforma della scuola di Renzi si direbbe che la passione ci sia stata, ma in senso diametralmente opposto: la passione di oltre 600 mila lavoratori della scuola che il 5 maggio del 2015 hanno scioperato era evidentemente in direzione ostinata e contraria ad una riforma che contraddiceva evidenze scientifiche e principi democratici.
Quella enorme manifestazione di opposizione non era certo motivata da specifici interessi di categoria, visto che, anzi, venivano offerti soldi in più agli insegnanti: dai 500 Euro della carta docente al bonus premiale.
Il problema è stato un progetto di scuola neoliberista, tendente alla privatizzazione, all’isolamento, alla competizione individuale, nettamente in contrasto con l’idea di scuola coltivata nelle associazioni e negli ambienti legati ai principi di una scuola democratica, così come con le evidenze scientifiche che attribuiscono alla capacità di cooperare tra studenti e tra insegnanti un importante ruolo nel successo scolastico, oltre che nel benessere degli individui e delle organizzazioni.
Questa vicenda denota l’incapacità di ascoltare che ha caratterizzato il PD e alcuni ambienti ad esso collegati, che avendo vissuto esperienze valide e interessanti si sono però sentiti detentori di una verità e di un sapere esclusivo ed escludente, che rende molto difficile il confronto con nuove idee e l’arricchimento che da esso ne deriva.
Anche le assunzioni e la firma di un nuovo contratto dopo nove anni non hanno potuto recuperare il consenso perso nel mondo della scuola, proprio perché non si trattava di una perdita basata su rivendicazioni economiche, quanto piuttosto su un’idea di scuola non condivisa, che il Governo Gentiloni ha però voluto ribadire, perdendo l’occasione di un ripensamento e di un recupero del dialogo e del consenso, peraltro già ampiamente persi anche con provvedimenti chiaramente inaccettabili dalla base come l’abolizione dell’articolo 18 o la proposta di modifica della Costituzione, sonoramente bocciata anche dall’ANPI.
Se chi prenderà in mano le sorti del governo sarà una formazione che si è opposta alla riforma della scuola di Renzi, come il Movimento 5 Stelle, dovrà valutare bene i passi da compiere, perché non si tratta semplicemente di eliminare due o tre elementi particolarmente invisi della legge 107/2015, ma si tratta di costruire insieme al mondo della scuola una riforma davvero condivisa attraverso forme di partecipazione democratica, che siano in grado di valorizzare le conoscenze e le migliori professionalità presenti, evitando che si produca l’ennesima riforma calata dall’alto e vissuta come un’imposizione.
La riforma della scuola non si fa contro gli insegnanti che la devono realizzare, ma la si elabora insieme ai più preparati e appassionati tra loro e la si propone poi alla discussione nei collegi docenti.
Questo è ciò che è mancato al PD e non solo nel mondo della scuola, a giudicare dai servizi televisivi che mostrano sedi storiche con sale abbandonate, una volta affollate e frequentate da persone semplici che si riunivano producendo un sapere collettivo, confrontandosi con proposte elaborate ai vertici, a partire dall’ascolto dei bisogni della popolazione, e modificate in seguito alle riflessioni e alle proposte della base.
Questa mancanza di confronto, di condivisione, di riflessione e di produzione di sapere collettivo – nella scuola così come nei luoghi di vita e in particolare nelle periferie – è a mio parere la causa della sconfitta del PD e sarà la causa della sconfitta di qualunque altra forza che, magari attualmente vincente, dovesse dimenticare i principi della democrazia partecipata, che non può basarsi solo su consultazioni on line, ma deve coinvolgere i cittadini nella produzione di un programma e di un progetto condiviso intorno al quale possa esserci passione organizzata per un vero cambiamento.