Alcune lingue le ha studiate a scuola, ma molte gli sono entrate in testa grazie ad internet. Timothy fa pratica con gli amici in tutto il mondo per mezzo di Skype. Ma la sua fortuna è vivere a New York dove ci sono persone che vengono da tutti i Paesi e dove, dal ristorante alla metropolitana, non mancano le occasioni per fare pratica. Per questo studente prodigio della Dalton School basta uscire dall’appartamento dei genitori nell’East Village per ritrovarsi nella culla del melting pot, dove può esercitare in mille situazioni quotidiane il suo eccezionale talento.
Agli antipodi dello stereotipo dell’americano medio culturalmente pigro e indolente, Tim si sente suggerire di continuo una carriera da spia. Quelli come lui, ma lui è da Guinness, vengono definiti iperpoliglotti: una di quelle persone che sanno parlare in modo fluente più di sei lingue.
La straordinaria avventura di Doner è cominciata nel 2009, durante gli studi per il bar mitzvah (il rito ebraico che decreta il raggiungimento dell’età adulta) per il quale aveva dovuto imparare l’ebraico. Timothy si è in seguito cimentato con l’arabo e in sette giorni delle vacanze estive era riuscito a leggerlo correttamente.
Il fenomeno degli iperpoliglotti è al centro di studi di scienziati di tutto il mondo. Una teoria pubblicata qualche anno fa sulla rivista britannica Cerebral Cortex sostiene che le abilità linguistiche sono migliori laddove lo studente ha un grande ‘giro di Heschl’, un’area nell’emisfero sinistro del cervello che racchiude la corteccia uditiva che presiede alla percezione dei suoni
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