E’ Il Sole 24 Ore a fare il resoconto: il numero di apprendisti in Germania sfiora il milione e mezzo di unità, in Italia siamo a quota 470mila, quasi tutti “contratti professionalizzanti” e quindi senza rapporti con scuole o università; anche le retribuzioni sono differenti: un apprendista tedesco “guadagna” circa 700 euro (una retribuzione che sale con il tempo e sconta l’impegno formativo dell’impresa), mentre nel nostro Paese il costo per l’azienda è più elevato, in media 1.200 euro (in pratica c’è pochissima differenza con una normale busta paga di un lavoratore qualificato).
L’occasione per tornare a discutere di “sistema Germania” è stata la presentazione ieri, all’università Luiss di Roma, davanti al ministro, Giuliano Poletti, e al segretario di Stato del ministero federale dell’educazione tedesco, Georg Schutte, della ricerca «Educare alla cittadinanza, al lavoro e all’innovazione: il modello tedesco e proposte per l’Italia», curata dall’associazione TreeLLLe e dalla Fondazione Rocca.
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In Germania all’istruzione superiore professionalizzante si iscrivono un milione e 347mila studenti (altri 1,6 milioni scelgono l’università), ma in Italia invece gli Its (le super scuole di tecnologia post diploma alternative all’università) sono decollati da pochi anni e contano appena 7mila studenti (lo 0,4% del 1.747.000 alunni che frequentano l’istruzione terziaria).
C’è poi la necessità di introdurre periodi obbligatori (almeno il 20% dell’orario) di formazione “on the job” per tutti i percorsi a carattere tecnico e professionale; gli Its vanno valorizzati, e i docenti formati.
Una caratteristica vincente del modello tedesco è anche la sua capacità di trasferire i risultati della ricerca scientifica al sistema produttivo, favorendo così l’innovazione: in Germania, per esempio, le domande di brevetti (per milioni di abitanti) sono state 272, contro le 63 dell’Italia. E Berlino investe 77,8 miliardi di euro in Ricerca e Sviluppo (contro i nostri 19,8 miliardi).
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