Una nuova denominazione, a partire dall’inizio del nuovo anno scolastico, per l’Istituto comprensivo Vittorio Emanuele III di Palermo. La cerimonia di assegnazione del nuovo nome si è svolta alcuni giorni fa nello stesso istituto del capoluogo siciliano: inizialmente erano tre i nomi presi in considerazione: Nilde Iotti (staffetta partigiana durante la Resistenza al nazi-fascismo e poi Presidente della Camera dei deputati), Felicia Bartolotta Impastato (madre di Peppino Impastato, assassinato dalla mafia, che profuse un fortissimo impegno al fine di fare incriminare i responsabili dell’uccisione del figlio) e Margherita Hack (astrofisica di caratura internazionale, divulgatrice scientifica e prima donna a dirigere un osservatorio astronomico in Italia). I nomi di tutte e tre queste donne avrebbero meritato secondo gli studenti di campeggiare sulla facciata della loro scuola. La scelta è infine ricaduta su Margherita Hack, della quale il 29 giugno verrà ricordato il decennale della morte.
All’evento per l’assegnazione del nuovo nome all’istituto comprensivo, che conta tre plessi (scuola dell’infanzia, scuola primaria e secondaria di I grado), hanno preso parte alunni, docenti e altro personale scolastico, chi direttamente nella palestra, dove si è svolta la manifestazione, chi attraverso la Lim della propria classe. Presenti anche diversi ospiti, accanto alla dirigente scolastica dell’istituto, Tiziana Dino.
Una giornata festosa, anche se ufficialmente sarà il 1° settembre prossimo il giorno in cui la scuola sarà intitolata a Margherita Hack.
La decisione di cambiare il nome alla scuola era già stata presa tempo fa, dopo un suggerimento dato dalla senatrice Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti, la quale in visita alla scuola palermitana si stupì che era intitolata al re sabaudo che promulgò le leggi razziali introdotte in Italia dal governo fascista nel 1938 e che precedentemente – come già ricordato in un altro articolo che prendeva spunto dal “Giorno della Memoria” – aveva permesso l’ascesa del fascismo quando il 28 ottobre 1922 i fascisti iniziarono la marcia verso Roma e il re si rifiutò di firmare la dichiarazione dello stato d’assedio, assecondando successivamente il regime fascista nonostante i crimini (solo un esempio tra tanti è l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti), la dittatura, l’alleanza con i nazisti, per poi abbandonare Roma dopo l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre 1943, fuggendo (o “trasferendosi” sostengono alcuni) prima in Abruzzo per poi “riparare” a Brindisi, lasciando i soldati italiani, spesso rimasti senza superiori e senza ordini, facili vittime delle rappresaglie tedesche, e lasciando poi l’Italia in una sanguinosa guerra civile.
E davvero sembra assurdo che in Italia esistano ancora alcuni istituti scolastici intitolati a Vittorio Emanuele III (ad esempio a Palermo c’è un’altra scuola, un istituto tecnico professionale, intitolata a tale monarca, e ci auguriamo che anche questa scuola di istruzione secondaria di II grado segua la strada intrapresa dall’istituto comprensivo), ma anche nomi di piazze, vie e strutture pubbliche a lui intitolate.
Ma in effetti non è che i suoi predecessori più vicini abbiano dato a Vittorio Emanuele III… un buon esempio. Non è questo articolo l’occasione opportuna per approfondire l’argomento, ma su alcuni avvenimenti almeno un cenno va fatto. Suo padre, Umberto I di Savoia, favorì la repressione dei nascenti movimenti popolari culminata nei tragici fatti dei moti popolari del 1898 Milano contro la tassa sul macinato che portava all’aumento del prezzo del grano, decorando poi personalmente il generale Bava Beccaris che aveva fatto sparare sulla folla con i cannoni determinando centinaia di morti e feriti tra le persone che manifestavano. Venne etichettato come “Re mitraglia”, criticato dai socialisti e dai repubblicani italiani, oltre che dagli anarchici, per le sue forti repressioni (feroce e sanguinosa quella di Milano, della quale proprio in questo mese di maggio ricade il 125° anniversario) e le sue idee conservatrici che aumentavano i poteri della corona con leggi eccezionali, approvando nel contempo una politica colonialista.
Invece, del nonno del re che firmò le leggi razziali va menzionato il cosiddetto “sacco di Genova” nel 1849, quando l’esercito sabaudo per bloccare una insurrezione di ispirazione mazziniana non esitò a bombardare oltre che sugli insorti pure su abitazioni civili e su un ospedale. E secondo testimonianze alcuni reparti dell’esercito piemontese, una volta entrati in città, “si abbandonarono alle violenze contro la popolazione civile”. Vittorio Emanuele II nell’occasione di questi “moti” definì l’intera vicenda “l’affare di Genova”. E come dimenticare che negli anni successivi alla proclamazione del Regno d’Italia ordinò la repressione, talvolta spietata, delle ribellioni contadine nel Meridione, con la motivazione, spesso pretestuosa, della lotta al banditismo (quel controverso fenomeno definito anche “brigantaggio” che al suo interno ha derivazioni e connotazioni diverse).
E se intitolare una scuola, una biblioteca, un luogo pubblico a Vittorio Emanuele III appare, come detto, decisamente “fuori luogo”, tutto sommato nell’Italia repubblicana, scelta dalla maggioranza dei cittadini con il referendum del giugno 1946, qualche riflessione approfondita andrebbe fatta anche su questi suoi due predecessori. E ci si riferisce proprio a Vittorio Emanuele II e a Umberto I e non per un preconcetto verso la casa Savoia, perché ad esempio meriti vanno riconosciuti a Carlo Alberto di Savoia (almeno per quanto riguarda il suo cosiddetto “periodo liberale”), che emanò la Carta costituzionale del 1848 – lo “Statuto Albertino” che porta infatti il suo nome – che in qualche misura in quel contesto modernizzò gli assetti istituzionali.
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