I lettori ci scrivono

A proposito del concorso dirigenti scolastici

Visto che la graduatoria dei vincitori del concorso Dirigente scolastico è stata pubblicata, nel rispetto dei ruoli e delle persone, con tutto il cuore vorrei esprimere le mie considerazioni al riguardo, provando a rispondere alla Sua missiva. Lei ha fatto parte di una delle tre commissioni bolognesi, mentre io mi sono ritrovato ad esser stato valutato proprio dalla Sua commissione.

Non entro nel merito dei diversi aspetti da Lei messi sul piatto della Sua riflessione. Una sola cosa, però, non mi sento di poter condividere: quando mette in risalto la pochezza dei compiti esaminati, al punto da dire che “i compiti dei bocciati erano veramente indegni”, sottolineando a ragione del Suo asserto che quegli scritti altro non fossero che un mosaico di mostruosità ortografiche o, peggio, un mero elenco di norme senza alcuna esplicitazione di AZIONI.

Ebbene, almeno per quanto mi riguarda, io non mi trovo per niente d’accordo con Lei. Della scrittura, al di là della professione che svolgo, ne ho fatto quasi una ragione di vita. Davanti alle parole, resto “incantato dall’incanto” che esse possono suscitare nell’anima dell’interlocutore. Ho sempre ritenuto che l’incontro fra due parole sia una sorta d’amplesso fra innamorati e, per questo, la scrittura in me assume i tratti di una liturgia. Questa cosa, del resto, non è confinata tra le pie aspirazioni di un’illusione del momento; anzi, mi è stata riconosciuta negli anni da pubblicazioni su riviste di settore a caratura nazionale (son laureato in Lettere classiche, in Sociologia, in Psicologia clinica e Licenziato in Teologia Fondamentale).

Non è mia abitudine parlare di quel che faccio; in certe circostanze, però, mio malgrado diventa necessario. Come sociologo, dunque, ho scritto di comunicazione e mutamento nella cultura postmoderna; come psicologo, mi sono occupato di immaginario e arte; in ambito filologico e teologico ho pubblicato uno studio sul suicidio in filosofia e nei tragici. Ho applicato il metodo etnografico e narrativo per far luce in maniera diversa sul fenomeno bullismo. Con quest’ultimo lavoro, in particolare, mi sono ritrovato citato in qualche bibliografia. Mi creda, tutto si può dire del sottoscritto tranne che non sappia scrivere.

Inoltre, sono iscritto all’albo degli Psicologi e, come facilmente potrà intuire, l’inconscio è linguaggio (lo diceva Lacan). Sa, coi pazienti spesso il colloquio diagnostico si risolve con giochi di parole e le parole altro non sono che una sorta di rispecchiamento, la forma orale di un testo scritto. Chi ha dimestichezza con le parole, dunque, sa scrivere. Può avere difficoltà sicuramente per la presenza di variabili di disturbo, come lo potrebbe essere ad esempio il digitare un testo con un sistema informatico antidiluviano e con un fattore tempo ghigliottina che non tiene conto di un dogma dell’abilità scrittoria: la necessità della presenza di un “testo provvisorio” su cui lavorare. Questo lo sanno gli scrittori, i poeti e financo i giornalisti.

Detto questo, e sempre nel rispetto dei ruoli, ci mancherebbe, mi rendo conto che in una condizione di stress un candidato possa abbassare i livelli di performance, ma avrà senz’altro capito che non sono il tipo da orrori ortografici né tantomeno da sintassi sconclusionate, a meno che in questo momento non sia stato lo Spirito Santo a sostenermi, facendomi scrivere meglio. Nel mio piccolo, da insegnante, alcune cose non riesco a capirle, come ad esempio, per quanto riguarda l’item “conoscenza e uso pertinente della norma”, l’attribuzione di un punteggio omogeneo e costante (cinque “due” di fila), laddove io stesso mi sono reso conto di non essere stato così proporzionato. La valutazione, però, è sovrana e qui mi taccio. Riconosco il limite di non avere una piena conoscenza dell’inglese ma dieci punti su venti, considerata la maniera assurda di presentare il testo da leggere in schermata, potevano essere più che sufficienti.

Passo alla seconda considerazione. Almeno per quanto mi riguarda, non risulta che nei miei elaborati vi siano mere elencazioni di norme decontestualizzate; anzi, al netto di qualche dimenticanza e di qualche defaillance, mi sembra di averle ben “incistate” nella dinamica di azione implementata. Certo, non mi sono fermato a dire: “il Dirigente fa questo, poi questo e quest’altro ancora”; altrimenti avrei corso il rischio di aver sostituito un mero elenco di norme con un altrettanto mero, e semplicistico, elenco di azioni. Quell’agire, a ben dire, lo si ricavava adeguatamente nell’economia dinamica della situazione descritta. Inoltre, anche se fosse mancata la descrizione delle azioni, credo si capisca la caratura di un concorrente dalla struttura del testo, dai contenuti, da quello che dice. Questo è sempre però un punto di vista. Non solo. Almeno per quanto mi riguarda, nell’elaborazione del testo, ho provato a descrivere quelle azioni così come delineate da numerosi esperti seguiti sui webinar. Ho studiato, appreso e interiorizzato quanto da loro insegnato. A me sembra, tanto per fare un esempio, che una delle tracce non chiedesse i passaggi collegiali per la valutazione sic et simpliciter, ma azioni del Dirigente che, pur passando anche per la dimensione tecnica collegiale, escogitasse delle strategie per una fattispecie data e non generica: allievi con livello di apprendimento fragile. Con tutto il rispetto, una strategia ottimale in quel frangente dovrebbe abbracciare anche contesti “extra-collegiali”; un interfacciarsi col territorio; un coinvolgimento delle famiglie; l’apertura della scuola. Anche questo, però, un punto di vista.

Che dire? Certo il mio compito non è stato perfetto; sicuramente un quesito è stato parzialmente centrato ma, considerato l’insieme del lavoro svolto e la lettura di altre prove ormai note sul web, forse un dignitoso 70 almeno me lo sarei meritato. Non ne faccio un discorso personale, mi creda. A 54 anni sono convinto di aver vissuto la maggior parte della mia vita professionale e, nel giro di tre decenni (per la verità ne spero quattro), anche per me passerà la scena di questo mondo. Ne faccio solo un discorso di senso.

Un’ultimissima notazione, infine, mi sia consentita. Guardi, le parole sono pietre e fanno male. Mamma mia! Dire “indegno” mi sembra un tantino eccessivo. Questo triste epiteto, nella letteratura, nelle esegesi e nel linguaggio informale viene associato a concetti quali “spregevole”, “abietto”; “non meritevole di fiducia alcuna”. Esistono forse locuzioni più accorte per descrivere un fatto o l’azione di una persona. Credo si dovrebbe cercare il meglio nelle persone e, nel caso questo “meglio” non ci sia, rimarcare ma con garbo tale inadeguatezza. Questo asserto di fondo, tale valore, ho avuto la fortuna di approfondirlo proprio studiando per il concorso a Dirigente, quando diversi autori mettevano in evidenza il carattere di un profilo alto di leadership nel momento in cui il leader pone attenzione alle parole sempre, comunque, ovunque.

Un’altra cosa mi addolora dover rimarcare. Pur non avendo superato lo scritto, io non mi sono mai permesso di mettere in dubbio i sacrifici, la serietà e la competenza dei miei colleghi tanto meritevoli quanto fortunati. Ne conosco diversi e, di alcuni, ho potuto constatare de visu l’abnegazione e la stanchezza. Non tutti i “bocciati”, quindi, hanno fatto affermazioni cattive nei confronti dei vincitori.

E’ andata così. Non fa niente e, pur nella speranza ormai lontana di una possibile riconsiderazione, resta la consapevolezza che la vita, che le scelte di vita non ci appartengono mai del tutto, nonostante la fatica e l’impegno. Un mio grande maestro, una Padre Gesuita a cui devo tanto, amava ricordarmi: “Guarda, caro Raffaele, purtroppo nella vita, oltre alle abilità, contano anche il contesto e il caso”. Alla luce della mia esperienza non posso non dargli che ragione, aggiungendo però che, mentre e per fortuna il caso passa, le abilità (per quanto limitate esse siano) restano affinché qualcuno le sappia cogliere, apprezzare e valorizzare. Il mio progetto di vita, però, almeno al momento, è stato coartatamente deviato, inserendo la mia “versione del mondo”, soprattutto la mia etica, in un quadro idealtipico di estrema negatività, che del resto non mi appartiene. Questo, proprio per i sacrifici, la fatica e lo studio che mi hanno condotto fin qui, proprio non lo posso accettare.

Raffaele Fontanella

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