Conoscendo la preside Mariuccia Puleo, da anni preside del Liceo Fogazzaro, e ricordando la sua dedizione e la sua passione educativa, mi ha colpito la forma di incomunicabilità nel dialogo con le sue studentesse.
Segno che non possiamo, anche se armati dalle migliori intenzioni, mai dare per scontata quella comprensione che, vista la consuetudine di vita scolastica, non è invece scontata nel mondo di oggi. E la scuola è, mi sento di dire, la migliore interfaccia della società, perché luogo universalistico di vita dei ragazzi.
Una cosa positiva è l’avere riscontrato che una preside si prende cura di andare in classe cercando il dialogo diretto, cosa oggi non diffusa nelle scuole. Anzi, sono pochi i presidi che si dedicano al contatto diretto, una delle esperienze più preziose, soprattutto dopo questi due anni e mezzo. Resta la sostanza, cioè la capacità di dialogare, di capirsi, di darsi una mano, che, al di là degli indirizzi e delle materie, è il cuore pulsante della scuola stessa. Per il suo vincolo educativo, prima degli apprendimenti vari. Cosa più difficile oggi, mai scontata, non solo nella scuola, ma anzitutto in famiglia e nei diversi risvolti sociali, anche per l’intero mondo dei tanti strumenti virtuali che non sempre, oggi, facilitano il bisogno di comunicazione. Anzi, mi verrebbe da dire, l’hanno reso più complicato. Perché, per dialogare in vista di una comprensione reciproca, ci vuole fiducia, ci vuole empatia, ci vuole sensibilità. E il dialogo migliore lo si fa guardandosi negli occhi. Perché non basta la sola individuale intenzione, ma l’intenzione deve farsi strada comune, sentiero condiviso. Altrimenti c’è solo dialogo tra sordi, al di là delle parole. È per questo che nascono le incomprensioni che sfociano nelle baruffe, come le chiamiamo. Le quali sono sempre forme di aiuto reciproco: “cerca di capirmi, no tu cerca di capirmi”. Col rischio reale del silenzio, del dialogo vuoto e muto. L’esperienza più brutta. Anche le baruffe, cioè, sono forme di aiuto.
Gli episodi, dunque, successi prima al Liceo De Fabris di Nove, poi al Liceo Canova di Treviso e ora al Liceo Fogazzaro di Vicenza, al di là del contenuto, cioè l’abbigliamento più consono alla vita della scuola di ragazze e ragazzi, riguardano la fatica della reciproca comprensione. E, in seconda battuta, hanno a che fare con una libertà personale che va mediata col contesto istituzionale. Perché resta vero che questi stessi ragazzi e ragazze, una volta inseriti nei vari mondi del lavoro, senza fatica si adatteranno, per il loro abbigliamento, al contesto, sapendo che, comunque, è un po’ vero che “l’abito fa il monaco”.
Sullo sfondo, dunque, la fatica del dialogo, con una libertà personale che non può esaurirsi nel solo “liberum arbitrium indifferentiae”, cioè nell’individualistico libero arbitrio. Per la pretesa assoluta indifferenza alle ragioni o motivi del vivere in comune. Sì, lo sappiamo, questa libertà è quasi istintuale negli adolescenti, tanto che ne fanno largo uso per parlare di sè in mille linguaggi, ed il corpo è uno di questi. Ma, come mi è già capitato di dire, è bene che ciascuno faccia, anzitutto per se stessi, questo esercizio, adottando uno dei due verbi ausiliari: io sono il mio corpo o io ho il mio corpo? A ciascuno la libera e meditata risposta.
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