Nella giornata del 31 luglio in occasione dell’esame del ddl sulla filiera tecnologico-professionale si è svolto alla Camera un vivace dibattito sul termine “addestramento” che il Governo aveva voluto introdurre nel testo del provvedimento durante il passaggio al Senato.
Il ministro Valditara ha difeso la scelta del termine ricorrendo anche al dizionario della Treccani, mentre l’opposizione ha tenuto il punto sottolineando che la scuola deve perseguire il compito di educare e di istruire.
Per la verità la questione non è affatto nuova, in epoca relativamente, e risale almeno all’immediato dopoguerra quando le forze politiche iniziarono a dibattere sul ruolo della scuola.
Si era ancora nel pieno della scuola “gentiliana” e il tema era quello della “defascistizzazione” del sistema scolastico.
Il problema era materia di discussione sulle principali riviste culturali del momento e coinvolgeva i migliori intellettuali di quegli anni.
Un articolo di Elio Vittorini pubblicato a ottobre del 1945 in uno dei primi numeri della rivista Il Politecnico, edita da Einaudi e da lui stesso diretta, proponeva una analisi del tema, di grande interesse ancora ai nostri giorni.
In polemica con Concetto Marchesi, grande latinista e intellettuale comunista che fece poi parte anche della Assemblea Costituente, Vittorini sosteneva in quell’articolo che la scuola non può limitarsi, come pareva intendere Marchesi, a formare i quadri dirigenti della società.
Ed ecco cosa scriveva Vittorini: “La scuola può insegnare anche quanto occorre alla specializzazione tecnica di un uomo nella medicina, nell’ingegneria, nella chimica, o semplicemente nella coltura dei piselli, nell’allevamento delle pecore”.
E continuava (il grassetto è nell’originale dell’articolo): “Ma vi è molto di più che la scuola può insegnare: la scuola può insegnare tutto quanto occorre all’uomo per diventare soggetto di cultura e di coscienza cioè di libertà di capacità creativa e di fede nel progresso civile. E, se è vero che la società ha per ora bisogno di limitare, selezionando, la formazione degli specializzati tecnici, cioè dei suoi quadri, non è meno vero che essa ha sempre più bisogno, se vuole essere sempre più civile, di togliere ostacoli e impedimenti nella possibilità per gli uomini di diventare soggetti di cultura e di coscienza”.
La conclusione del direttore del Politecnico è cristallina: “E’ nell’interesse della produzione che non tutti siano ingegneri, medici, professori od operai specializzati, e che vi sia un gran numero di manovali dell’industria o di manovali dell’agricoltura. Ma è nell’interesse della civiltà che anche il più umile lavoratore manuale si trovi di fronte ai libri, di fronte alle opere di arte, di fronte al pensiero scientifico e filosofico, di fronte alle ideologie politiche, di fronte ad ogni ricerca e ad ogni esperimento della cultura, nelle stesse condizioni di assimilabilità in cui funzionalmente si trova l’ingegnere, il medico e il professore”.
“Sul terreno della scuola – affermava infine – il problema fondamentale, anzi essenziale, non può essere altro che quello di fornire a tutti i mezzi della conoscenza e rendere tutti armati, attrezzati preparati nello stesso modo per accostarsi ai libri e alle opere d’arte, e partecipare alle ricerche della cultura”.
Non c’è molto altro da aggiungere: la questione era già molto chiara 80 anni fa, ed è un peccato che tutti questi decenni non abbiano fatto arretrare il dibattito anziché farlo avanzare.
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