Attualità

Addio ad Ernesto Ferrero, uomo tra editoria e scrittura

È morto Ernesto Ferrero, intellettuale di grande valore che ha lavorato a lungo nell’editoria, per Einaudi prima, poi per Boringhieri, Garzanti e Mondadori.

Oltre che nell’ambito editoriale, ha declinato il suo impegno culturale nella narrativa – suo il romanzo N. a cui Virzì si è ispirato per il film N. (Io e Napoleone) – nella saggistica, nella critica e, marginalmente, nella produzione per l’infanzia.

Dal 1998 al 2006 ha diretto il Salone internazionale del libro di Torino. Tra i suoi ultimi lavori Album di famiglia. Maestri del Novecento ritratti dal vivo (2022) e il volume dedicato a Calvino nel centenario della nascita, Italo (2023).

Lo ricordiamo ripubblicando uno stralcio dell’intervista uscita nel 2013 su «Scuolainsieme», a cura di Mariarosa Rossitto, in cui Ferrero racconta l’imprinting einaudiano e la cultura come passione intellettuale e civile.   

1. I migliori anni della nostra vita (2005) guida i lettori attraverso i corridoi e le scrivanie di via Biancamano e racconta di Einaudi, Bollati, Calvino e degli altri grandi protagonisti della casa editrice, illuminandone la dimensione umana e privata. È un libro che, complice la prosa elegante e limpida, sfrondata dell’inessenziale, si legge d’un fiato, come un romanzo, e che si torna a rileggere più volte come una bella poesia. C’è soprattutto l’idea del lavoro editoriale come contributo al progresso della conoscenza…  

Di più. Il gruppo che Giulio Einaudi aveva costruito, badando soprattutto a tenere viva la dialettica interna, trovando ad ognuno il suo interlocutore/oppositore giusto, convinto com’era che solo il confronto anche duro poteva produrre buoni risultati, questo gruppo, dicevo, era convinto – da Norberto Bobbio fino all’ultimo redattore – che il mondo poteva e doveva essere cambiato con i buoni libri. Il programma annuale veniva deciso, vorrei dire disegnato, come si può scrivere una sinfonia. Qui i violini, là i fiati, le percussioni, il piano…Un libro non correva mai da solo, faceva parte integrante di una serie di riferimenti, di rimandi interni: era un capitolo dello stesso discorso. Possiamo ravvisare in questo modus operandi un abbozzo di quel concetto di rete che ai nostri giorni è diventato quasi ovvio. Quella che si offriva era una serie di nodi, di interconnessioni. 

Ogni libro doveva rappresentare – almeno tendenzialmente – un avanzamento nel proprio campo, fosse un’opera di letteratura, storia, scienze umane ed esatte, arte. Si doveva distinguere per un metodo innovativo, fin provocatorio, per una sperimentazione ardita, quasi sfrontata, ma naturalmente fondata scientificamente. Avanguardisti va bene, ma preparati. Giulio Einaudi era uomo che non amava guardarsi indietro, che voleva correre più forte del futuro immediato. Ogni giorno si apriva con l’urgenza di questa sfida, correre davanti a tutti, esplorare territori ancora incogniti, mappare quel che ancora non si conosceva. Ogni nuovo libro era chiamato in primo luogo a “fare catalogo”, cioè non doveva bruciarsi nell’attualità immediata, ma restare come un’acquisizione sicura, dunque avere buone probabilità di essere ristampato, magari più volte. 

Contrariamente a quello che accade oggi, le probabilità di vendita non venivano nemmeno prese in considerazione. Gli aspetti commerciali erano volutamente ignorati, quasi considerati una inammissibile volgarità. Roberto Cerati, mitico direttore commerciale, che era anche più rigoroso degli editoriali, era il primo ad esserne convinto; e tuttavia per molti anni non fu nemmeno ammesso alle riunioni del mercoledì. Quando vi fu finalmente accolto, vi partecipò con funzioni di uditore, né mai si sarebbe sognato di orientare le scelte su criteri commerciali. Tutti sapevano che i libri davvero importanti corrono avanti, rispetto al proprio tempo, che magari impiegherà molto per poterli riconoscere; ma alla fine acquistano la statura dei classici contemporanei, e dunque costituiscono il cuore del catalogo, quello che garantisce solidità e stabilità all’intera casa editrice. 

Non tutti i titoli, naturalmente, vanno incontro a questo glorioso destino; e questa corsa al meglio comporta problemi economici e finanziari su cui non entro. Normale che si facciano errori di valutazione, che molti titoli – a scorrere il catalogo generale della casa – ci appaiono inesorabilmente invecchiati, frutto di passioni spente da tempo. Altre volte non si sono saputi “leggere” valori che poi sono apparsi ovvi. Celebri e citatissimi i casi di Se questo è un uomo di Primo Levi, respinto nel 1947 (ma va detto che i tempi non erano ancora maturi per una riflessione sulla tragedia appena compiuta); o del Gattopardo, che a Vittorini non sembrava abbastanza innovativo dal punto di vista letterario (e non lo era, in effetti). Ma lo spirito era quello: guardare in là, darsi un progetto di lunga durata, contribuire a formare le future classi dirigenti, quelle che avrebbero dovuto dare al Paese non solo il benessere economico, ma una maggior giustizia sociale, una scuola e una cultura migliore, ecc. Insomma, una funzione di pubblico servizio, naturalmente intesa nel senso più alto e più nobile, di lavoro che si svolge a vantaggio della collettività. 

A giudicare da come sono andate le cose, temo che i nostri sforzi entusiasti e appassionati non abbiano dato i frutti sperati. Ma naturalmente non esiste una controprova: dove saremmo finiti senza i libri Einaudi, su cui si sono formate intere generazioni di italiani? Né possiamo accollare alla sola casa editrice il compito formativo che toccherebbe all’intera nazione. Qui si apre una complessa questione storica che esula dai limiti della nostra conversazione. Semplicemente, l’Italia non ha avuto quella borghesia colta, civile e illuminata che ha garantito altro sviluppo e ben altre capacità gestionali a Paesi come Francia, Inghilterra e Germania.  

2. L’editoria è ancora, come riteneva Einaudi, «conoscenza degli uomini» o invece oggi è più strategia di comunicazione e marketing? 

Per Einaudi l’editoria era conoscenza degli uomini e per gli uomini. Il libro che conta, diceva, ti cambia nell’essenza, muta la tua percezione del mondo e di te stesso. Oggi purtroppo è cambiato quasi tutto. Sono spariti gli antichi padri-padroni, da Arnoldo Mondadori a Valentino Bompiani, da Livio Garzanti allo stesso Einaudi, con rare eccezioni: Adelphi, Laterza, Zanichelli… Sono rimaste delle proprietà per le quali i libri sono un’attività come un’altra, e devono produrre reddito. Di conseguenza, la ricerca del profitto immediato ha di molto abbassato il livello qualitativo. Le direzioni marketing influenzano pesantemente quelle editoriali, magari solo a livello inconscio. Ogni tre mesi il controllo di gestione stabilisce in base ai risultati economici se sei bravo o no. Ma l’editoria è come l’agricoltura: ci vuole tempo e pazienza, non tutte le colture producono sempre e allo stesso modo, forzare la maturazione significa produrre frutti insipidi, acquosi. Purtroppo il pubblico, se non è preparato e selettivo, si adegua a questo appiattimento, a questa corsa al ribasso. Le classifiche dei libri più venduti fanno letteralmente spavento. Naturalmente vanno benissimo i “gialli”, i libri di cucina e il porno-soft, ma non bisognerebbe fermarsi lì. 

3. A guidare l’Einaudi, con «intelligenza intuitiva» e carisma, il «divo Giulio», che ha qualche tratto napoleonico. È dedicato a lui, significativamente, il romanzo N., che racconta, attraverso la voce del bibliotecario Martino Acquabona, l’esilio di Napoleone all’Elba. L’idea dell’opera – ha dichiarato in un’intervista – è nata da una mostra di libri di Bonaparte e da una domanda: è possibile capire un uomo partendo dai libri che legge? 

Questa domanda se la era già posta Marguerite Yourcenar. Non so se si arriva a capire del tutto un uomo dalla sua biblioteca, ma certamente si imparano molte cose. Primo Levi ci ha dato un libro bellissimo, La ricerca delle radici, che è un’antologia dei libri che più hanno contato per lui. Titoli magari inattesi, persino sorprendenti, che raccontano della sua formazione, dei suoi interessi, della sua concezione del mondo e della scrittura, rivelandoci molte più cose di quelle che potevamo immaginare.  

In effetti si capisce parecchio di Napoleone dai libri che legge. Emerge il suo talento pragmatico, tutto votato alla soluzione di specifici problemi concreti. È stato un grandissimo statista, manager, organizzatore di uomini, un ministro dell’industria e della cultura che ancora oggi ce lo sogniamo. Dotato di una memoria strabiliante, immagazzinava dati, nozioni, informazioni, che poi sapeva elaborare con straordinaria rapidità. Sapeva che tutto si gioca sul tempo. Il suo era un tempo già novecentesco, modernissimo, mentre i suoi contemporanei si muovevano su blandi ritmi settecenteschi, da Ancien Régime. 

A Sant’Elena, poi, Napoleone fa una battuta da vero redattore. Dice che gli sarebbe piaciuto rileggere con la matita gli storici a lui contemporanei, per togliere tutti gli aggettivi superflui. Sarebbe stato anche un ottimo editor: pignolo, intransigente, rigoroso. Magari soltanto un po’ autoritario… 

4. È più autobiografico N. o I migliori anni della nostra vita? 

Forse N., ma la vera autobiografia sta nella scrittura. Ogni autobiografia, diretta o indiretta, è in realtà la costruzione non di quel che siamo, ma di quello che vorremmo essere: un travestimento, magari inconscio. Mentre con la scrittura non puoi barare: sei quella cosa lì, nel bene e nel male, cioè il modo con cui ti esprimi.  

Guardandomi indietro, mi accorgo di aver adottato nei miei romanzi (è romanzo anche I migliori anni, perché la memoria sceglie e racconta – e inventa – quel che vuole lei, è un pittore, non uno scienziato) il punto di vista del testimone secondario, quello che sta in seconda fila, un po’ in disparte, guarda e riferisce a suo modo. Non ho smanie di protagonismo, non ho le doti del leader, mi piace lavorare in gruppo, l’imprinting einaudiano in questo senso è stato fortissimo. È più interessante studiare gli altri, anche se per capire gli altri bisogna prima capire qualcosa di se stessi. D’altra parte come testimone secondario mi ritrovo in ottima compagnia: Italo Calvino (il Barone rampante che passa la vita sugli alberi, ottimo punto d’osservazione, è lui) e Natalia Ginzburg, che recita la parte della ragazza a prima vista un po’ grigia, che ama nascondersi nelle retrovie famigliari, si dichiara inabile e poco pronta, ma intanto capisce tutto, molto meglio dei presunti protagonisti. 

5. L’idea dell’incontro/confronto tra un uomo maturo, colto nella solitudine del proprio fallimento, e un giovanissimo e intraprendente personaggio femminile, presente nel libro per bambini Il giovane Napoleone (2006), è recuperata e approfondita in Disegnare il vento (2011), opera che, nel centenario della morte, racconta, tra ricostruzione e invenzione, l’ultimo viaggio del capitano Salgari…  

La ringrazio, perché non avevo pensato al collegamento – che pure esiste – tra la ragazza un po’ discola che diventa amica di Napoleone a Sant’Elena e quella che cerca di salvare Salgari da se stesso. Nel romanzo salgariano, avevo bisogno di un punto di vista che offrisse un più di sensibilità, intelligenza, intuizione, pietà, solidarietà vera. E questo solo le donne possono fornirlo. Le donne salveranno il mondo, questo l’ho sempre saputo fin da ragazzo. 

Maria Rosa Rossitto

Redazione

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