Si chiude, scrive Adi, il cinquantennale tormentone della graduatoria nazionale dei precari, nell’intento lodevole di vincere una partita che tanti danni ha fatto alla scuola e alla stessa immagine degli insegnanti.
Si cerca di dare stabilità al corpo docente, tentando di frenare (“almeno tre anni”) una mobilità patologica, che impedisce a molte scuole di sviluppare una propria identità professionale e culturale (il cosiddetto “effetto istituto).
Si riafferma con forza il diritto del Governo e del Parlamento di riappropriarsi della definizione del nuovo stato giuridico dei docenti, a cominciare dal ridisegno dei criteri della carriera economica. Si decreta così la fine dell’esperienza fallimentare della contrattualizzazione del rapporto di lavoro avviata nel 1995.
Si definisce – anche se in maniera ancora troppo “modesta” – lo sviluppo professionale (il docente “mentor”), la carriera retributiva (non solo per anzianità) e la valutazione dei docenti attraverso un sistema di crediti didattici, formativi e professionali (introduzione del portfolio)
Ma ci sono secondo Adi anche punti critici:
Non viene superato il nodo degli istituti professionali statali da collegare alla diffusione della formazione e istruzione professionale regionale. L’introduzione generalizzata degli stage degli allievi, impropriamente chiamata “sistema duale” alla tedesca, non ha nessun effetto sulla dispersione (soprattutto al Sud): bisogna avere il coraggio di introdurre stabilmente nell’istruzione tecnica e professionale una vera alternanza scuola – lavoro, con una revisione dei curricoli, degli organici e delle figure professionali.
Non si affronta il nodo che riguarda la scuola secondaria di 1°grado, anello debolissimo di tutto l’ordinamento, ed anche la riduzione di un anno della scolarità da 13 a 12 anni (in termini di quadriennalizzazione dell’istruzione secondaria di 2° grado), per quanto non generalizzata.
Negativo il voler ancora una volta inserire nuove discipline (quasi tutte del curricolo cosiddetto “umanistico”: filosofia, storia dell’arte, musica, ecc.) in curricoli come quelli italiani che, come dimostrano le ricerche internazionali (PISA docet), sono i più estesi in senso temporale ed anche i più carichi per numero di discipline. Nessun cenno alle discipline o attività opzionali, né ad un rafforzamento della cultura tecnica e scientifica in tutti gli ordini e gradi di scuola.
Nessuna decentralizzazione e poche novità in termini di autentica autonomia, né viene assegnato, almeno ad una parte di Istituti, forme coraggiose di autonomia senza la quale non spiccheranno il volo efficaci innovazioni.
E’ ignorato il ruolo dell’Amministrazione. L’implementazione (sulla quale sono cadute tutte le riforme del Dopoguerra) di questo ambizioso progetto di trasformazione non può essere affidato a questa Amministrazione. È necessario innovare profondamente non solo la struttura dell’Amministrazione centrale e periferica, ma soprattutto le competenze (oggi solo giuridiche) dei suoi dirigenti e gli organigrammi, tenendo conto degli ambiti ancora ampiamente inesplorati di autonomia delle scuole.
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