S’impenna la curva delle patologie psichiatriche tra gli adolescenti. Lo dicono i dati resi noti in un convegno all’ospedale pediatrico “Gaslini” di Genova (organizzato dalla CEI) sulla salute mentale infantile e adolescenziale. Nel 2019 i casi noti di ricovero al “Gaslini” per disturbi psichiatrici erano 72 (il 46% dei quali ragazze); nel 2022 i ricoveri sono saliti a 270 (in media almeno cinque a settimana, con una percentuale di ragazze esplosa al 73%); aumentano i comportamenti autolesionistici (da sette a 70, specie sotto i 14 anni), mentre diminuisce l’aggressività contro gli altri. Gli hikikomori (ragazzi in ritiro sociale) sono aumentati da tre a 21. I disturbi alimentari da tre a 116.
È ormai tradizione attribuire la colpa di tutto ciò al CoViD e alla guerra, che avrebbero frastornato e rintanato in casa i ragazzi. Certamente l’aver chiuso le scuole per mesi, costringendo i più giovani alla DaD, non ha contribuito alla costruzione in loro del senso di realtà.
Evidentemente, però, c’è dell’altro: qualcosa che è tipico del nostro modo di vivere, che non abbiamo affrontato e che sta vieppiù manifestando il proprio potenziale distruttivo.
Qualcosa che è andato accentuandosi: dalla pessima abitudine, in voga già dagli anni ‘80, di parcheggiare i piccoli per ore davanti alla TV spazzatura; per finire con il cellulare-babysitter, messo in mano persino a bimbi di pochi mesi per tenerli buoni. Comportamenti “educativi” che hanno prodotto guasti incalcolabili, ancora non del tutto studiati, e difficilmente sanabili. Anche perché sta emergendo la precisa volontà, da parte delle multinazionali che gestiscono i cellulari, di utilizzare le conoscenze in materia di psicologia delle masse per asservire l’individuo logiche esclusivamente mercatistiche, finalizzate al profitto.
Infatti il problema non riguarda solo gli adolescenti. Secondo Giuseppe Ducci, Direttore del DSM (Dipartimento Salute Mentale) della ASL Roma 1, un italiano su cinque manifesta disturbi emotivi, ma ben sei su 100 mostrano disturbi mentali gravi. Che cosa fa lo Stato italiano per fronteggiare questa emergenza? Diminuisce i fondi ad essa destinati. Nel 2001 la Conferenza Stato-Regioni aveva fissato al 5% la quota minima del (già risicato) Fondo Sanitario Nazionale (FSN) da destinare alla salute mentale: lo Stato l’ha ridotta al 2,75%, proprio dal 2020. E pensare che, secondo l’Unione Europea, tale quota non dovrebbe scendere sotto il 10%.
Intanto lo stesso FSN passava dal 6,8% del PIL al 6,1 (malgrado le reiterate promesse di non ridurre mai più la spesa sanitaria dopo la disastrosa gestione del CoViD). Con la regionalizzazione, in compenso, tutto peggiorerà (almeno nella maggior parte delle regioni italiane).
Il Servizio Sanitario Nazionale, con risorse così limitate, riesce seguire solo un paziente psichiatrico su due, mentre troppi altri sono indirizzati al pronto soccorso (e rimandati a casa in tre casi su quattro). Pochi hanno accesso alla psicoterapia, mentre nel 2021 la prescrizione di antidepressivi è cresciuta del 2,4%.
Qualcosa non torna in questo disastro. Qualcosa che ha a che fare col nostro modello di vita sociale, coi valori (e disvalori) imperanti, con un’insicurezza generalizzata e contagiosa, dovuta a diversi fattori: primo fra tutti una competitività esasperata, di matrice ideologica, neoliberistica, neopositivistica, “neodarwinistica” oseremmo dire. L’idea, fortemente radicata oltreoceano, secondo la quale il valore della persona si misura (calvinisticamente) col suo portafogli e con la sua posizione sociale. Motivo per cui, se sei ricco e influente te lo sei meritato, e se non sei nessuno te lo sei meritato ugualmente.
Il “merito” come variabile indipendente che annulla tutto il resto, come ghigliottina dialettica che decapita ogni tentativo di analizzare la situazione nella pluralità delle sue concause, è un marchingegno semplice e inesorabile, che miete vittime proprio tra le persone più complesse (e spesso più sensibili e intelligenti): come lo sono gli adolescenti in trasformazione. Eppure sono queste le persone di cui una società complessa ha più bisogno, e delle quali dovrebbe maggiormente prendersi cura, con tenerezza e delicatezza. Come possiamo, dopo 25 secoli di riflessione etica e filosofica, esserci ridotti così?
Sta di fatto che — mentre aumentano vertiginosamente le richieste di riconoscimento di DSA e BES da parte di genitori alla spasmodica ricerca di “successo scolastico” per i propri figli — anche la mente dei docenti (soprattutto se donne) si ammala. Tra le diagnosi di inidoneità lavorativa dei docenti per motivi di salute, le diagnosi psichiatriche sono schizzate dal 31 all’82% in 30 anni: il trentennio che ha visto precipitare la condizione dei docenti, del loro stipendio, dei loro diritti sindacali, del loro status giuridico, della loro considerazione sociale, del loro tempo libero. Una semplice coincidenza?
Unici in Europa, gli (le) insegnanti devono lavorare fino a 67 anni, in classi pollaio afose o gelide, con alunni di cui potrebbero essere i nonni. La nostra testata ha dedicato all’argomento articoli esaustivi. Eppure ancora nei primi anni ‘90 si poteva andare in pensione dopo 15 anni di servizio. Lo Stato italiano è così: ama passare da un’assurdità ad un’altra diametralmente opposta, senza mediazioni. Con quali ricadute sulla qualità di vita dei cittadini tutti?
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