Agosto è il mese per definizione delle vacanze e dei viaggi. Ne sentiamo il bisogno. Lo desideriamo lungo tutto l’anno.
Forse è uno dei modi per resistere allo spaesamento, per difendersi dalla fatica di un giorno dopo giorno che costa non poco.
Allora sentiamo che ci possiamo riconoscere e ritrovare cercando, un po’, ci imparare di nuovo, allargandone gli orizzonti, il sapore della vita, il gusto anche delle giornate a volte a tinte fosche.
Si cerca in questo modo, cioè, di difendersi dallo spaesamento, rimettendo in cammino le parole che contano, quelle essenziali, ma che vediamo che fatichiamo a ritrovarle nelle ordinarie esperienze.
Oggi disponiamo di troppe parole, e sentiamo che, al dunque, uccidono quel silenzio, quella pulizia, che cerchiamo. Capace di dire un po’ il senso dello scorrere delle giornate e delle stagioni di vita.
Il silenzio, lo avvertiamo, di tanto in tanto fa bene. Anzitutto il silenzio delle parole, e poi di quei pensieri che, lo intuiamo, sono troppe volte delle maschere per nascondere il nostro volto più vero. Una sorta di corpo a corpo con tante cose che, non sempre sanno di buono.
Allora diventiamo, chi più chi meno, dei turisti per caso, o per vocazione,
E, per fermare, a futura memoria, questa ricerca del bello che si fa sublime, del bene tanto cercato e tanto disperso, ci facciamo aiutare dall’”occhio degli occhi”, cioè dal cellulare, con foto e messaggi che descrivono, nelle nostre intenzioni, questo viaggiare per viaggiare.
Del resto, cantava un moderno chansonnier:
“il mondo è solo un mare di parole e come un pesce puoi nuotare solamente quando le onde sono buone e per quanto sia difficile spiegare non è importante dove, conta solamente andare comunque vada per quanta strada ancora c’è da fare”.
Dunque, “conta solamente andare”.
E a questo “occhio di vetro” poi il compito di segnare la strada fatta, cioè osservare, cogliere i particolari, fissare i ricordi, dare corpo alle emozioni.
E i social come pubblici altari.
Noi tutti, perciò, talmente impegnati e concentrati a fermare col cellulare l’istante, da perderlo questo istante. E perché colto attraverso una macchina, e perché l’istante nel frattempo se ne va sfumando.
Rimanendo solo un ricordo.
Le orde dei click sono la costante del moderno viaggiare. Non si guarda, non ci si lascia catturare dal bello fattosi sublime, ma tutti impegnati a cliccare.
Serve prepararsi per un viaggio, oppure lasciarsi andare alla speranza di una “sindrome di Stendhal”? Cioè allo stordimento della bellezza in sè?
Del resto, lo sappiamo, le stelle possono brillare solo in una notte fonda.
Il viaggio è dunque, e comunque, una metafora, quella della conoscenza.
La sostanza, credo, è che venga inteso come un mettersi alla prova, per capire di esserci nell’oggi della vita che ci viene ogni giorno donata e sudata. Insieme.
Per questo, viaggiare si può e si deve, ma i modi possono essere diversi.
Mi vengono in mente due filosofi che la pensavano diversamente.
Per primo Spinoza, nel ‘600, che si spostò nella sua vita all’interno di un raggio di 60 km.
O Kant, fine ‘700, che uscì dalla sua Königsberg, oggi Kaliningrad, solo una volta nella vita.
Ma scrissero pagine tra le più aperte, tolleranti, senza pregiudizi che io ricordi.
C’è dunque viaggiare, e viaggiare.
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