Non chiamatelo Ciampa. Dategli un altro nome, perché il “Berretto a sonagli” non c’entra, né Pirandello. È un altro soggetto quello scritto da Fabio Ceresa e rappresentato al Teatro Massimo Bellini di Catania, in cartellone fino al 9 marzo, con musica di Marco Tutino.
Né il riferimento alle “tre corde”, quelle di cui parla il protagonista della commedia pirandelliana, possono giustificare un titolo tanto pesante per un’opera lirica che vuole richiamare la tradizione musicale europea ottocentesca e ora a Catania in “prima mondiale”, per grazia di un sovrintendete, il maestro Giovanni Cultrera di Montesano, che invoglia, giustamente e con lungimiranza, alle sperimentazioni.
Più pertinente forse se questo personaggio, e dunque il librettista, avesse citato il “Giorno della civetta” di Sciascia con le famose parole del mafioso Mariano Arena sulla catalogazione degli uomini, fino al “quaquaraquà”. Un richiamo più adeguato, mentre è stato espresso da questo irriconoscibile Ciampa che fra l’altro di mafioso ha pochissimo, anche nell’aspetto e nei costumi di scena, nonostante un magnifico Alberto Gazale si sia sforzato di rappresentarlo.
Ma tale Ciampa ha poco soprattutto nella sostanza, lasciando così intuire che il librettista si sia lasciato sfuggire una denuncia più marcata del fenomeno mafioso, quello storico, vista pure l’ambientazione ai tempi dell’assassinio Notarbartolo, con la citazione al Banco di Sicilia.
Ed è infatti questo un mafioso che accetta, paziente, le corna che la moglie gli mette col marito della protagonista, Beatrice Fiorica (interpretata da una splendida Irina Lungu), la quale è l’unica a ribellarsi, ma le cui coraggiose richieste di giustizia e di denuncia vengono soffocate anche dai carabinieri (quindi ancora il patto stato-mafia), per paura delle ritorsioni del boss Ciampa che perderebbe l’onorabilità. Che è un paradosso, perché nella costumanza omertosa dell’onorata società le cose sono esattamente al contrario, anche perché le famiglie mafiose non tollerano nemmeno che un loro affiliato abbia l’amante, trascurando la moglie. Figurarsi dunque un boss cornificato che per tale motivo verrebbe ucciso, non da un colpo di lupara, ma dalla universale derisione, perdendo onore e credibilità, considerata la vasta platea di coloro che sanno della tresca tra la consorte e il marito di Beatrice.
Ma il librettista lascia correre, proteso a descrivere il dramma della donna, mentre i dialoghi si liberano, tenendosi poco accostati dall’annunciare la tragedia che si sta compiendo sulla scena, come accade soprattutto nella “Lupa” che liberamente si ispira alla novella di Giovanni Verga su libretto di Giuseppe Di Leva. Pistolettata improvvisa, inaspettata senza accenni “preventivi” musicali di rilievo. Un abbrivio di fiati verdiani per esempio.
Più vicina al testo del vizzinese, quest’opera risente tuttavia di qualche lentezza, non riuscendo del tutto a sfondare nel cupo dramma che la donna e il genero vivono nel tormento della loro passione. Né in questa sicura attesa del colpo di pistola, aiuta appunto la musica, nonostante l’accenno alla Cavalleria e a un vecchio testo di Peppino di Capri che ha rischiato di trasformarsi in leitmotiv; al contrario invece di quanto accade col “Berretto”, per il quale Marco Tutino ha speso bene partiture e orchestrazione.
Valentissimi gli interpreti, bisogna sottolinearlo, e fantastica come sempre l’orchestra del teatro Massimo Bellini col suo direttore Fabrizio Carminati. Come pure le cangianti e suggestive scenografie digitali, gestite dalla regia di Davide Livermore che, a nostro avviso, non poteva rendere meglio le due vicende, aiutato in questo dalle magnifiche maestranze del teatro catanese che ha trazione antica e nobile.
E da qui pure l’invito alle scolaresche di vederne il “Dittico”: La lupa e Il berretto, Verga e Pirandello, e come possano ispirare perfino un’opera lirica, mancando tuttavia l’atteso plot, insieme all’intima carica umana che contraddistinguono le due novelle.